Colonia Roma, quartiere centrale di Città del Messico, è una delle zone socialmente più vivaci della megalopoli centroamericana. Epicentro della sottocultura hipster, ricco di ristoranti, club, negozi e gallerie d’arte, è un’area estremamente vivace, ma Alfonso Cuarón ce la presenta in modo graduale, partendo dal dettaglio di una grande casa alto-borghese: siamo negli anni Settanta, e una giovane domestica – Cleo, interpretata da Yalitza Aparicio – sta spazzando il pavimento del viale d’ingresso, prima di andare a prendere uno dei bambini all’uscita da scuola. Fin dalle prime scene, insomma, entriamo in un ambiente molto familiare, ricco di una quotidianità tranquilla e rassicurante, come i brani musicali che Cleo canticchia mentre fa i mestieri. È lo spazio della memoria, placido e lieve come un ricordo nostalgico, anche se Cuarón non è interessato alla malinconia: Roma, con il suo raffinatissimo bianco e nero in 65mm, lavora sul passato per stabilire una distanza critica, utile a riflettere sulle divisioni etnico-sociali in una nazione sconvolta da violente sommosse popolari.
In effetti, la storia di Cleo s’intreccia con la Storia del paese, che scorre sullo sfondo come un paesaggio fuori dal finestrino, mentre la ragazza e la famiglia per cui lavora vivono i loro drammi privati. In linea coi film precedenti del regista messicano, lo sguardo è concentrato sulla sfera femminile: Cleo frequenta Fermín, ma resta incinta e viene lasciata di punto in bianco; la signora Sofia – madre dei bambini – è in crisi col marito, che sparisce insieme alla sua amante. È una vicenda di donne abbandonate che cercano di ricostruire le proprie vite, ma soprattutto è la celebrazione di un matriarcato che si basa sulla solidarietà reciproca, all’insegna di una famiglia allargata dove i legami di sangue non sono necessari: l’importante è aver condiviso un percorso insieme. Cleo è una domestica, certo, e appartiene a un’etnia profondamente discriminata nelle gerarchie socio-economiche del paese; ma è anche una madre di cura, capace di amare i figli di Sofia come fossero suoi, usando una tenerezza che forse nemmeno la loro madre naturale è capace di donare.
Ciò che ne consegue è un racconto delicato ed elegante, uno spaccato intimo che sfiora l’universalità, pur lasciando la Storia in profondità di campo: Cuarón risale infatti alle sue stesse radici (la trama è ispirata alle donne della sua infanzia), e cerca le origini della sua formazione come uomo sensibile, riesaminando gli eventi che ne hanno influenzato il percorso artistico. Non a caso, gli interni del film brulicano di oggetti provenienti dal suo passato, mobili e manufatti di famiglia, come se il cineasta volesse ricostruire la memoria attraverso gli elementi fisici che ne sono pregni. Filtrati dall’immaginazione, i ricordi divengono quadri preziosi in cui la macchina da presa si muove dolcemente, senza gli insistiti virtuosismi delle sue ultime opere, ma con un’eleganza formale che resta sempre al servizio dei personaggi: i movimenti talvolta sono quasi impercettibili, esplorano l’ambiente e seguono la protagonista, oppure sottolineano alcuni leitmotiv ricorrenti che punteggiano la narrazione, come i salti del cane Borras all’arrivo dei visitatori e le disavventure dell’enorme auto Galaxy che resta incastrata nelle strettoie.
Con la sua ricercatezza stilistica e l’apparente casualità degli episodi che mostra (e che concorrono ad allestire un dettagliato ritratto d’epoca), Roma è un ammaliante soffio di vita, dove un mondo intero – vibrante, pieno di rumori di fondo, silenzi e routine – si agita alle spalle dei personaggi. Un’opera personalissima e vitale.
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