Mission: Impossible – Fallout, fortissimamente Tom Cruise

Mission: Impossible – Fallout, fortissimamente Tom Cruise

Di Roberto Recchioni

Tom Cruise, forse il più grande divo che Hollywood abbia mai avuto. Mi rendo conto che è una affermazione forte ma seguitemi un momento, ok?

Cruise inizia la sua carriera d’attore nel 1981, con Franco Zeffirelli, poi viene diretto da Harold Becker (allora ancora un regista di belle speranze), Francis Ford Coppola e Curtis Hanson. È però grazie all’oscuro Paul Brickman e al film Risky Business che Cruise esplode davvero, diventando una facciotta da poster di quelle che finiscono appese nelle camerette delle adolescenti, tanto è vero che il film seguente è un dramma adolescenziale-sportivo. A questo punto, la carriera di Cruise sembra segnata: è un idolo per le ragazzine. Uno che va bene per un paio di stagioni e poi scompare. Invece lo chiama Ridley Scott che lo vuole come protagonista del suo prossimo film. Ovvero, del prossimo film dopo Alien e Blade Runner. La pellicola è Legend e si rivela un bagno di sangue al botteghino, ma se la stella di Scott rimane appannata da quell’insuccesso (e tale resterà per anni) quella di Cruise ha appena iniziato a brillare davvero, perché il film successivo è Top Gun, diretto del fratello di Ridley, quel Tony Scott che, Hollywood ancora non lo sa, diventerà presto il regista simbolo della decade. Nel 1986, Tom Cruise decolla per il successo con il suo F-14 Tomcat e non lo ferma più nessuno. La critica è implacabile con lui e continua a liquidarlo come un fenomeno transitorio, eppure negli anni seguenti recita accanto a Paul Newman, Dustin Hoffman, Jack Nicholson, e da ognuno di loro impara e ruba qualcosa: un certo atteggiamento di Hoffman, un certo sorriso di Paul Newman, una certa maniera di serrare la mascella da Jack Nicholson. Cruise dimostra un fiuto anche nella scelta dei registi con cui collaborare e negli anni successivi viene diretto da gente del calibro di Martin Scorsese, Barry Levinson, Oliver Stone, Ron Howard, Rob Reiner, Sydney Pollack, Neil Jordan. È un periodo perfetto: Cruise non sbaglia praticamente un colpo al botteghino. In quegli anni se c’è la sua faccia sul manifesto, l’incasso è assicurato. Ed è strano perché già all’epoca il buon vecchio Tom non è uno che si attiri molte simpatie: troppo bello, troppo eroe, troppo -smaccatamente- vincente. Il pubblico maschile non si identifica in lui e le donne, stando a quello che dicono le classifiche del tempo, trovano più sexy icone altri idoli del periodo, tipo Mel Gibson. Eppure, Tom continua a essere garanzia di ottimi risultati. Nel 1996 esordisce come produttore di un progetto a cui ha pensato parecchio e che cura in quasi tutti gli aspetti: il remake di Mission: Impossible, una vecchia serie televisiva piuttosto amata ma che non è di certo un classico imprescindibile. Perché investirci tanto? Perché Tom vede molte potenzialità in quel franchise e vuole spenderci sopra tutto sé stesso. E, soprattutto, ha capito una cosa che gli altri divi di Hollywood capiranno solo qualche anno dopo: “possedere” un franchise, essere il volto di una proprietà intellettuale consolidata, è un tesoro che dura per sempre. Alla regia del primi M:I viene chiamato un un autore di razza come Brian De Palma, e il budget è imponente. La pellicola fissa da subito alcuni stilemi della serie: una tensione quasi hitckockiana (del resto, De Palma di Hitchcock è un enorme estimatore), almeno una scena con una pura invenzione visiva (l’iconico momento con Cruise appeso ai cavi) e azione, tanta azione alla vecchia maniera, quella fatta di inseguimenti prima che di esplosioni (non che le esplosioni manchino). Il film è un trionfo e Cruise riesce dove gente del calibro di Paul Newman ha fallito, regalando a Hollywood qualcosa che Hollywood ha sempre desiderato: un James Bond americano. Gli anni successivi sono una marcia di gloria per l’attore. Collabora con Cameron Crowe (due volte), Stanley Kubrick, Paul Thomas Anderson, e poi, John Woo, per il secondo M:I. Il regista honkonghese porta agli estremi il suo stile fatto di rallenty, sparatorie e colombe svolazzanti, regalando a Cruise un momento d’apertura indimenticabile (la scalata a mani nude di una parete rocciosa) e una sequenza in moto da storia del cinema. Il secondo capitolo della serie di rivela essere un altro incontestabile successo e ormai il franchise è solido. Cruise torna a cercare nuove strade. Con Steven Spielberg (due volte), Edward Zwick, Micheal Mann. E arriva a lanciare in sala il terzo capitolo della serie M:I. Questa volta in cabina di regia non c’è un maestro conclamato ma un talento emergente, quel J.J. Abrams che prima con Alias e poi con Lost ha fatto furore in televisione. Abrams confeziona l’episodio forse più debole di tutta la saga in termini di tensione, ritmo e spettacolarità (per quanto la scena del ponte sia comunque memorabile) ma ha il pregio di introdurre alcuni personaggi importanti per i film a venire e di alleggerire un poco i toni molto seriosi che, fino a quel punto, hanno caratterizzato la serie. Al botteghino va comunque benissimo.

A quel punto, sembra che nulla possa andare storto per Tom Cruise. E tutto va storto. Perché da un giorno all’altro tutti i contratti del divo vengono recisi e lui, incredibile a dirsi, si ritrova senza un prossimo film da fare.

Perché?

Molte sono le voci circolate sulla rottura tra Tom e le major hollywodiane. La più accreditata riguarda il ruolo sempre di maggior rilevanza che Cruise ha assunto all’interno della Chiesa di Scientology e la profonda (e giustificata) antipatia e diffidenza che gli studios provano nei confronti dell’organizzazione religiosa. Oppure i bizzarri (e un poco spaventosi) atteggiamenti tenuti dalla star in alcuni popolari talk show americani. O l’oscura faccenda riguardante Katie Holmes (la sua terza moglie, finita per qualche tempo nel programma di protezione testimoni dell’FBI, pare) e la loro figlia Suri. Qualunque sia la causa, in termini prettamente cinematografici la carriera dell’attore subisce un colpo apparentemente mortale. Mortale per chiunque altro… ma non per Tom Cruise, che non si arrende e continua a seguire la strada che lo ha portato al successo, solo che questa volta ci mette un sacco di soldi suoi per dare vita a collaborazioni di alto livello e progetti solidi. Un film con due leggende come Robert Redford e Meryl Streep, una salvifica operazione simpatia insieme a Ben Stiller, Robert Downey Jr. e Jack Black, un film con Bryan Singer e poi uno con la promessa James Mangold. Infine, il ritorno al suo franchise: il quarto capitolo delle avventure di Ethan Hunt. Alla regia, quel geniaccio made in Pixar di Brad Bird, qui al suo esordio come direttore di attori in carne e ossa. Che si rivela essere anche l’episodio migliore della serie fino a quel punto, con scene particolarmente ispirate (la scalata del grattacielo, la tempesta di sabbia, il combattimento nel parcheggio automatizzato) e un ritmo implacabile. Cruise si riprende tutto quello che era suo e oltre, perché il film di Bird supera il successo di tutte le pellicole precedenti legate al marchio M.I e chiarisce a Hollywood un punto: nessuno mette Tom Cruise nell’angolo. Dopo questo quarto capitolo, l’attore si prende una pausa dall’azione per cantare e ballare con Rock of Ages e prova a creare un secondo marchio di successo, portando sullo schermo le avventure di Jack Reacher. Il film è ottimo, i risultati al botteghino un pelo meno, ma comunque abbastanza buoni da giustificare un sequel. Di seguito si torna alla passione di Cruise per la fantascienza con Oblivion (un mezzo passo falso nonostante la fama di enfant prodige del regista) e Edge of Tomorrow (amato dalla critica, meno dal pubblico, ma comunque in odore di sequel). Poi è la volta di Mission: Impossibile – Rogue Nation. La regia è di Christopher McQuarrie che, dopo il film su Reacher, ha stretto un patto di ferro con Cruise: i due se la intendono su tutto e si vede.

La formula è la solita: uno script minimale il giusto che sacrifica la logica al ritmo e alla spettacolarità, sostenuto da un bel cast di attori e con Tom Cruise a dominare ogni minuto della pellicola. Il più grande incasso della serie M:I. A cui però non seguono altri successi. Il secondo capitolo della serie di Jack Reacher si dimostra fiacco e mal pensato, La Mummia ci viene raccontato come un monumentale flop al botteghino (in realtà, il film è andato molto meglio di come si creda), Barry Seal (un buon film dal sapore alla Martin Scorsese) passa praticamente inosservato da tutti. Sembra un momento di stanca della carriera di Cruise e lui reagisce nell’unica maniera possibile, sfornando un nuovo capitolo della serie che gli appartiene e che non lo ha mai tradito: Mission: Impossible – Fallout.

Alla regia e allo scritp, di nuovo McQuarrie. Che ormai ha capito cosa deve fare per rendere contenta la sua star e fare felice il pubblico: mettere Cruise al centro di ogni scena, sempre in movimento, sempre in situazioni al limite. Il preambolo è fiacco, con una scenetta con delle meccaniche dinamiche a dir poco discutibili. Si prosegue con una consueta sciarada a base di maschere di gomma (giusto per ricordare che, tutto sommati, è un film della serie M:I) e poi si parte con l’azione. Che non si ferma più fino alla fine. Tom che esegue un salto HALO da un aereo. Tom che picchia gente nel bagno piastrellato di un locale (ambiente che da True Lies a oggi, passando per Bad Boys II, Casino Royale e La Promessa dell’Assassino, è uno dei più pericolosi della storia del cinema). Tom che corre sui tetti, saltando da un palazzo all’altro (e rompendosi un piede). Tom, in moto, che insegue delle auto. Tom, in auto, che insegue delle moto. Tom che spara. Gente che spara a Tom. Tom che fa le acrobazie in elicottero. Tom che resta appeso a una montagna innevata. Tom. Tom. Fortissimamente Tom.

Servito in una salsa muscolare da film anni ‘70 (in certi momenti la pellicola ricorda da vicino Bullit e Il Braccio Violento della Legge) in cui è solo l’azione reale a farla da padrone e la parole sono, assolutamente, di troppo. Era da tempo che a schermo non si vedeva un film così esplicitamente votato al movimento puro. Così estremo nel suo non voler essere altro che un veicolo dell’azione e così ben riuscito sotto questo punto di vista. Il resto… il resto è un blando collante, non molto interessante, non particolarmente riuscito, per collegare una scena d’azione all’altra. Ed è questa la pecca maggiore del film che, purtroppo, non fornisce alcun gancio empatico con lo spettatore perché Ethan Hunt, come personaggio, non esiste più ma è solo un involucro vuoto che Cruise utilizza come scusa per realizzare i suoi stunt. Tutti i caratteri di contorno sono ormai al minimo storico per la serie che viene da chiedersi perché non usino, al posto loro, delle più economiche sagome di cartone. I vari avversari non hanno alcun carisma e l’unica cosa interessante che esprimono sono i baffi di Henry Cavill. Quanto allo storia, siamo di nuovo alla bomba e al cavo rosso e blu da dover tagliare all’ultimo secondo. L’unico momento riuscito in termini emozionali è una breve scena di contorno, dedicata a una poliziotta ferita. Tutto il resto che non sia azione, è noia purissima. Fortunatamente, il film è per l’80% azione.

Quindi, in conclusione, cosa dire? Non è capitolo più equilibrato della serie e, di sicuro, nemmeno il più ispirato (manca una forte scena iconica che lo caratterizzi). Possiamo anche spingerci oltre e dire che, se preso come un qualcosa che dovrebbe anche raccontare una storia appassionante, non è nemmeno un bel film. Ma se valutato per quello che è, ovvero un’opera che porta il concetto di cinema inteso come “immagine in movimento” ai suoi limiti estremi, è quasi un capolavoro.

E dico “quasi” perché Mad Max: Fury Road e Dunkirk, sono irraggiungibili.

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