C’è un curioso paradosso alla base di Mission: Impossible – Fallout, sesto capitolo di una saga cinematografica che dura ormai da 22 anni. Alternando gli sguardi dietro la macchina da presa, il franchise della Paramount Pictures ha saputo rinnovarsi numerose volte, differenziando i cineasti e le rispettive “poetiche”: il thriller spionistico di Brian De Palma – giusto per fare un esempio – ha ben poco in comune con l’action fiammeggiante di John Woo, ma anche J.J. Abrams, Brad Bird e Christopher McQuarrie hanno calcato la loro impronta sui rispettivi episodi, contribuendo al rilancio di un brand che non accusa segni di stanchezza. Ebbene, Fallout rappresenta una svolta importante per la saga, da cui deriva il suddetto paradosso. Per la prima volta, infatti, la produzione ha compiuto una scelta di continuità rispetto al passato, richiamando McQuarrie e confezionando un vero e proprio sequel del capitolo precedente, Rogue Nation, laddove gli altri film puntavano invece sull’impostazione autoconclusiva e la narrazione verticale.
Pur essendo fruibile come avventura indipendente, Fallout raccoglie l’eredità del suo prequel, mostrandoci le conseguenze dell’arresto di Solomon Lane e le contromisure di Ethan Hunt, ossessionato dai pericoli che Solomon potrebbe ancora nascondere: il Sindacato non c’è più, ma i membri superstiti si sono riuniti negli Apostoli, gruppo terrorista che vuole acquisire tre nuclei di plutonio per distruggere l’attuale status quo e imporre un nuovo ordine mondiale. Ethan ovviamente deve impedirlo, ma perde i tre nuclei per salvare la vita a Luther Stickell, suscitando così la diffidenza della CIA: per la successiva missione di recupero, l’agenzia impone all’IMF che il nostro eroe sia accompagnato da August Walker, cinico agente incaricato di intervenire nel caso Ethan si dimostrasse troppo tenero. Il dualismo fra questi personaggi – Tom Cruise e Henry Cavill – innesca un conflitto metanarrativo tra due diverse filosofie d’azione, che corrispondono al sogno e alla realtà: Ethan e l’IMF rappresentano l’utopia di un’istituzione del volto umano, capace di fare scelte morali, basate sull’affetto e sull’empatia; di contro, Walker e la CIA incarnano la dura realtà di un’agenzia che ragiona in modo algido, preoccupandosi soltanto dei propri obiettivi. La prima, insomma, agisce per difendere le persone, mentre la seconda per difendere i governi. La saga di Mission: Impossible mette in scena proprio questa chimera, che poi è tipica del cinema d’azione mainstream, dove il cuore dei singoli prevale sulla mentalità spietata e calcolatrice delle istituzioni.
Ethan Hunt riafferma quindi la sua proverbiale umanità, che lo rende fallibile ma anche simpatetico, nel senso che prova i medesimi sentimenti del pubblico (e prende le stesse decisioni che prenderebbero gli spettatori: esemplare, in tal senso, la scena con la poliziotta francese, quando Ethan è sotto copertura in una gang criminale). Gli stunt spericolati di Tom Cruise – che pure si è infortunato durante le riprese – elevano Ethan a eroe indistruttibile, il cui corpo è l’epicentro assoluto del film: si lancia col paracadute, corre sui tetti di Londra, resta aggrappato a un elicottero, precipita fra le rocce, ma ne esce sempre (quasi) indenne, sottoponendosi a un tour de force che l’attore esegue in prima persona; e McQuarrie è perennemente lì attorno per riprenderlo, con un mestiere che farebbe invidia a molti registi più consumati. In effetti, quasi tutte le scene d’azione sono memorabili: dal volo tra le nuvole in modalità HALO (girato in piano sequenza, uno dei momenti più suggestivi che il cinema action ci abbiano regalato negli ultimi anni) al combattimento nei bagni del Grand Palais des Champs-Élysées, dalle fughe per le strade di Parigi ai salti tra i palazzi londinesi… ogni scena è concepita per esaltare gli stunt e valorizzare l’ironia, le cui sfumature sono più evidenti che in passato.
McQuarrie si diverte a costruire una trama che gioca con i cliché dello spionaggio, volutamente caotica – soprattutto nella prima metà – e piena di ribaltamenti, dove non è mai chiaro quale personaggio si trovi in una condizione di superiorità. A questo proposito, sul piano dell’intreccio, Fallout è forse il capitolo che più si avvicina al primo Mission: Impossible di De Palma, e non è certo un caso che la sceneggiatura di McQuarrie inserisca un palese riferimento a quel film: la White Widow di Vanessa Kirby risale alle origini del franchise cinematografico, segno che la saga sta diventando sempre più consapevole della sua mitologia, e intende continuare a esplorarla in futuro (anche perché l’attrice di The Crown è già prenotata per l’eventuale sequel). In generale, Fallout è l’episodio che riporta Ethan Hunt alle sue radici autonome, consentendogli di superare il retaggio familiare di Mission: Impossible III – un po’ troppo gravoso per una saga come questa – e concentrarsi su altre responsabilità, di stampo globale: forse Ethan non potrà mai vivere una vita normale, ma la formidabile Ilsa Faust (Rebecca Ferguson) e gli amici dell’IMF formano attorno a lui quel surrogato di famiglia che tanto piace all’immaginario hollywoodiano.
Ciò che ne deriva è l’action migliore dell’anno (almeno finora), nonché un ottimo esempio di cinema delle attrazioni, onesto e trascinante come pochi altri blockbuster contemporanei.
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