Hereditary, l’orrore è un sentimento familiare

Hereditary, l’orrore è un sentimento familiare

Di Lorenzo Pedrazzi

Non è così strano che Hereditary abbia sancito per l’ennesima volta una dissociazione tra pubblico e critica, com’è accaduto negli ultimi tempi anche ad altri film horror della prestigiosa A24, The Witch e It Comes at Night. L’esordio al lungometraggio di Ari Aster è stato salutato con una nomea pesantissima, quella di “horror dell’anno”, e ora si ritrova sulle spalle una responsabilità molto gravosa, soprattutto quando viene messa alla prova delle grandi platee internazionali. Rispetto ai folgoranti successi della Blumhouse (basati per lo più sui jump scare e altri meccanismi stereotipati), gli horror indie del cinema contemporaneo inseguono una strada autoriale che si traduce in una maggiore raffinatezza della messa in scena, e spesso anche in una ricerca di atmosfere sospese, quasi metafisiche, dove l’orrore può diventare un pretesto per raccontare altro. Questo discorso vale sia per il sopracitato It Comes at Night sia per l’ottimo It Follows, ma ritorna di prepotenza nel qui presente Hereditary, la cui decodifica risulta ancora più semplice se si considerano i lavori precedenti del suo giovane autore.

Aster ha dichiarato che l’horror era il mezzo più efficace per narrare questa storia, eppure le radici del film non affondano nel genere in sé, bensì nei personaggi, con un’impostazione da dramma familiare. Il titolo fa riferimento all’arcana “eredità” che la famiglia Graham riceve da Ellen, madre di Annie e nonna dei suoi due figli, Peter e Charlie: alla morte dell’anziana donna, una strana presenza continua ad aleggiare nelle loro vite, rievocando antichi rancori e conflitti mai risolti. L’orrore c’è, ma germoglia piano, all’insegna di uno slow burn che funziona particolarmente bene negli horror introspettivi. Questo perché Aster – pur essendo un cultore del genere – non è tanto interessato all’horror in sé, quanto all’irruzione del dolore nel quadro familiare, mettendo in scena un contesto palesemente antiretorico: il lutto, invece di unire i membri della famiglia, li separa nelle rispettive frustrazioni, e nemmeno chi cerca di tenere insieme i pezzi (come il padre Steve) ha la forza morale per farlo. Il male si annida proprio in quel collante che dovrebbe garantire l’unità della famiglia, l’amore o una sua versione deviata, dove Aster rintraccia la fondamentale meschinità della natura umana, spesso incapace di vivere gli affetti senza disperazione o egotismo. Di fatto, Hereditary porta a compimento una “poetica” che il cineasta newyorkese aveva già espresso nei suoi primi cortometraggi, soprattutto The Strange Thing About the Johnsons, Munchausen e Beau, dominati da una concezione della famiglia come fonte di minaccia e sopraffazione, ovviamente nascosta dietro una maschera felice.

Tutto questo ritorna in Hereditary, ma Aster ha la possibilità di articolare meglio il discorso, approfondendo il contrasto fra genitori e figli: gli errori o le nevrosi dei primi ricadono inevitabilmente sui secondi, in perenne balia di un’autorità parentale sempre più inaffidabile. Ne risulta un progressivo slittamento verso la follia, che disorienta lo spettatore con l’accumulo di indizi, apparizioni, personaggi o eventi inspiegabili. Hereditary, a tal proposito, viaggia in direzione opposta rispetto alle consuetudini del genere horror: non tenta di allestire un racconto organico, dove la reiterazione del pericolo (un mostro, un killer, una presenza…) sia sempre armonica e riconoscibile, ma punta tutto sull’incoerenza, prendendosi gioco di chi cerca d’individuare uno schema o una regola interna. La verità si dipana gradualmente, ma Aster è fin troppo ansioso di mostrare la sua bravura, e pur trovando una corrispondenza tra lo slow burn della sceneggiatura e la placida eleganza dei movimenti di macchina, rischia spesso di scivolare in soluzioni gratuite o stucchevoli, come l’inquadratura che segue la bara sottoterra o le inutili evoluzioni della cinepresa sul soffitto. Gli manca il senso della misura, anche nelle svolte drammatiche: l’esasperazione dei toni sfiora il parossismo, come già in The Strange Thing About the Johnsons, ed è chiaramente frutto di un regista che deve ancora acquisire il dono della sottrazione.

Mano a mano che il film procede, però, emerge un lato grottesco che appare inscindibile dalla sua idea di orrore, caratterizzato da una sfumatura beffarda che deve molto al cinema di Polanski; non a caso, Rosemary’s Baby è uno dei principali punti di riferimento per il giovane regista, che ne cita l’epilogo in modo abbastanza diretto. Così, se è vero che gli aspetti demonologici risultano filologicamente accurati, è altrettanto palese che Aster preferisca concentrarsi sulla quotidianità dell’orrore, rappresentata dalle miniature che Annie costruisce per lavoro. I modellini sono un classico esempio di perturbante freudiano: contaminano familiarità e straniamento, sbalordiscono per la ricchezza di dettagli e inquietano per le loro capacità “mimetiche”, soprattutto quando la macchina da presa si diverte a confonderli con la realtà circostante (come nella scena d’apertura). L’impressione è che i protagonisti siano intrappolati nelle loro nevrosi come i pupazzetti all’interno delle miniature, e probabilmente è questo il vero orrore di Hereditary: un senso di immobilità claustrofobica che sfreccia verso la catastrofe, nonostante le sue vittime riescano a intuirla per tempo. Ciò che ne consegue è un film non pienamente riuscito, in gran parte derivativo (da Shining, oltre che da Polanski), ma capace di stabilire un clima di ineluttabile sconfitta, teso e ansiogeno come pochi altri horror contemporanei. Bisogna però accettarne il versante grottesco, così pericolosamente vicino – nella sua escalation finale – al ridicolo involontario.

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