Non era affatto scontato che una serie tv sul wrestling femminile degli anni Ottanta diventasse lo specchio del nostro presente: GLOW, reduce da una validissima prima stagione, raggiunge il compimento definitivo nella seconda, trovando proprio nel wrestling – e nei suoi bizzarri paradossi – un linguaggio universale che le permette di riflettere sulla nostra contemporaneità, in particolare sulla costruzione dell’identità femminile e sul ruolo del corpo nella società dello spettacolo. Tematiche come queste erano già connaturate alla serie, ma le creatrici Liz Flahive e Carly Mensch ne aggravano il peso sulla vita delle protagoniste, approfondendo a turno i vari membri del gruppo (con l’occhio rivolto al movimento #MeToo) per superare l’apparenza delle gimmick e toccare la dura realtà che si nasconde dietro le maschere.
Ora che ognuna delle lottatrici ha il suo personaggio, lo show fittizio può esprimere tutto il suo potenziale: Ruth (Alison Brie) e Debbie (Betty Gilpin) rappresentano ancora i due poli opposti della Guerra Fredda, Zoya the Destroya e Liberty Bell, ma quest’ultima si è vista sottrarre la corona da un altro stereotipo ambulante, Tammé / Welfare Queen (Kia Stevens), e lo scontro fra le due contendenti è il pezzo forte della trasmissione. Dietro le quinte, però, le acque sono agitate. Ruth gira la sigla iniziale del programma senza il permesso di Sam (Marc Maron), che s’infuria e licenzia Reggie (Marianna Palka), rea di aver difeso la collega. Gli incontri si rivelano lenti e noiosi, quindi Sam chiede alle ragazze di lavorare in coppia per inventare dei combattimenti migliori, e le sottopone a dei provini per selezionarli. Nonostante la creatività dimostrata dalle lottatrici, la rete K-DTV sposta lo show alle due di notte, preludio alla sua inevitabile cancellazione: la verità è che Tom Grant, presidente del canale, ha invitato a cena Ruth nella sua camera per molestarla, ma lei è riuscita a sottrarsi ed è scappata di nascosto, attirando la vendetta dell’uomo sull’intera produzione. Tra battaglie personali e professionali, le ragazze cercano quantomeno di confezionare un epilogo degno di questo nome, scoprendo che le opportunità possono giungere dalle fonti più inaspettate.
Insomma, il wrestling si conferma l’emblema ideale degli Stati Uniti d’America, dove tutto è programmato nei minimi dettagli per trasformarsi in spettacolo. Lo schematismo manicheo delle gimmick suscita le emozioni basilari del pubblico, replicando dinamiche già usate dai mezzi di informazione e dalle istituzioni, che amano dirigere l’astio dell’opinione pubblica verso uno spauracchio condiviso. Eppure, questa semplificazione diventa una grande opportunità nelle mani delle protagoniste: la reificazione dei corpi, trasformati in oggetti sessuali, avviene in un contesto dove le ragazze possono controllare la narrazione, e quindi autodeterminarsi sia come persone (poiché il lavoro e la fama sono garanzie di autonomia) sia come personaggi (essendo in grado di dirigere la trama a loro piacimento, adottando decisioni collettive). Ciò che ne deriva è una storia di empowerment che tocca i punti più sensibili della condizione femminile, soprattutto nel mondo del lavoro, dove Debbie – contrapposta al “candore” di Ruth – esprime tutto il disincanto di una donna che troppo spesso è dovuta scendere a compromessi con lo strapotere maschile. Memorabile il quarto episodio, Mother of All Matches, che mette in parallelo le esperienze materne di Debbie e Tammé prima di confrontare i rispettivi alter ego sul ring: se Debbie vive l’antitesi dolorosa fra il ruolo di “donna” e di “madre”, Tammé rinnega invece quello stesso cliché che le è stato affibbiato nello show, dimostrando la validità dei suoi sforzi per far studiare il figlio a Stanford. Sottoporsi alla mentalità razzista dei bianchi è l’unico modo per risalire la scala sociale, come il ragazzo scopre amaramente.
Questa parcellizzazione delle sottotrame non indebolisce la polarità narrativa della prima stagione, che anzi si conferma l’ossatura dell’intera serie: il dualismo tra Debbie e Ruth conserva infatti la sua centralità, ma stavolta quest’ultima ha modo di riscattarsi, come si evince “simbolicamente” dalla vittoria finale di Zoya. Abituata a ruoli marginali, Ruth lotta per ottenere quel riconoscimento artistico e professionale che a molte donne viene negato, ma un discorso simile vale anche per Debbie, produttrice che spesso si ritrova esclusa dalle riunioni di produzione e dagli incontri con le alte sfere della rete. Flahive e Mensch mettono in scena l’inevitabilità dei conflitti caratteriali, ma anche la possibilità di superarli attraverso lo sforzo creativo: proprio quando Ruth e Debbie sembrano aver toccato il fondo, GLOW ci offre l’episodio più sorprendente della sua storia biennale, The Good Twin, impostato come una puntata dello show, con tanto di spot e videoclip fittizi che imitano lo stile dell’epoca. Gli incontri sul ring sono collegati fra loro da varie sequenze di raccordo che ne illustrano i retroscena e offrono un intermezzo comico, ovviamente con un profluvio di stereotipi etnici e culturali. È l’apice creativo della serie, un bizzarro pastiche che – al contrario di altre rievocazioni degli anni Ottanta – non coltiva un feticismo autocompiaciuto, ma lavora sulla satira per denigrare certe banalizzazioni che valgono ancora oggi.
Con i suoi costumi sgargianti e le sue caratterizzazioni elementari, il wrestling si rivela la forma espressiva ideale per ritrarre lo scarto fra interiorità e rappresentazione di sé, particolarmente significativo quando si è costretti a offrire il proprio corpo come un biglietto da visita. Eppure, all’interno di questa logica degradante, le protagoniste riconquistano il diritto all’autogestione del corpo come strumento di affermazione individuale, nonché forma di controllo sui soggetti desideranti (gli uomini). In tempi dominati dall’ossessione per lo storytelling e per la messa in scena della propria vita, GLOW sfrutta il wrestling per imitare gli stessi meccanismi, con un gradito surplus di spandex glitterati.
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