Sex & The City 2: Distruzione Totale

Sex & The City 2: Distruzione Totale

Di Nanni Cobretti

Cade in questi giorni il ventesimo anniversario del primo episodio di Sex & the City e, un po’ per il gusto masochista dell’immersione hardcore, un po’ soprattutto perché ho perso una scommessa, sono entrato nella sala Ludovico della Cobretti Mansion e mi sono sparato (così, a secco, senza casco né giumbotto antiproiettile) il secondo lungometraggio tratto dalla storica serie tv che tanto scalpore fece a suo tempo per l’inedito, provocatorio, liberatorio ritratto delle sue protagoniste femminili.
Non so praticamente nulla della serie ma, da impavido professionista, prima di guardarmi questo film mi sono documentato e sorbito un episodio propedeutico – ben mirato e consigliatomi appositamente da esperti internazionali in materia – che mi è stato fondamentale per introdurmi ai quattro personaggi principali (anche se il nome di uno di essi, Charlotte, l’ho imparato solo a metà del lungometraggio).

Se dovessi spiegare le protagoniste a qualcuno messo come me, direi che sono come i Kiss: Carrie (Sarah Jessica Parker) è il Figlio delle Stelle, la frontwoman, la voce narrante; Samantha (l’idolo della mia infanzia Kim Cattrall) è il Demone, l’arrapata cronica; le altre due non contano una ceppa, con Miranda (Cynthia Nixon) che ogni tanto viene comoda perché fa l’avvocato e quell’altra… com’era che si chiamava?… Charlotte (Kristin Davis), che fa la scema scopo didascalie educative e/o gag facili (rispettivamente L’Uomo dello Spazio e L’Uomo Gatto, quelli che se ne stanno buoni in seconda fila e che se li rimpiazzi non se ne accorge quasi nessuno).
Hanno anche circa la stessa età dei Kiss, ma a parte questo non mi azzardo a spingermi più in là col paragone. Tutte e quattro comunque sono unite nel nome del rock’n’r… dello shopping senza freni.

Il film inizia con una situazione che non mi aspettavo: sono tutte sposate.
Anche Carrie! Carrie ha sposato Mr. Big di violenza, mi raccontano.
Samantha ovviamente è l’unica ancora single.
Samantha è un caso psichiatrico grave, talmente grave che il film stesso suda sette camicie (firmate) per darle una dignità, ma fallisce miseramente.
C’è ad esempio questa scena in cui lei se ne sta seduta nel suo mega-ufficio a pareti trasparenti, con le gambe divaricate e le mutande abbassate alle ginocchia per mettersi una crema nelle parti… scusate, è Samantha, l’idea di chiamarle “intime” mi fa sorridere, ma avete capito. È una scena che si potrebbe giocare in diversi modi accettabili, e forse si vorrebbe che il pubblico sorridesse sospirando “Oh, pazza e incorreggibile Samantha”, e invece riesce ad essere solamente grezza e l’istinto è piuttosto quello di chiamare un’infermiera che la riporti nel camerone. Povera Kim Cattrall. Ci vorranno sette visioni di Scuola di Polizia e diciotto di Grosso Guaio a Chinatown per cancellare questo.
Ma insomma, io mi guardavo queste tre tipe sposate con caso clinico a carico e, oltre a farmi da solo domande sadomaso tipo “ma chi è in condizioni più preoccupanti tra Samantha e la Courtney Love di oggi?”, dal basso della mia concezione distorta di Sex & the City pensavo: “E adesso??? Cioè, sono tutte accasate, che ci sarà mai da raccontare?”. Poi guardavo il countdown del player che segnava -146 minuti e mi facevo il segno della croce.
Nei primi 40 minuti si va di inerzia: Carrie e Big (gran cognome) hanno problemi che più sciocchi e fasulli non si può, tipo che lui è un po’ poltronato e lei (mettiamola così) iperattiva, che io inizialmente davo quasi ragione a lei perché voglio dire, amico, l’hai voluta impalmare e dovresti sapere a cosa sei andato incontro, ma quando mi hanno spiegato che l’ha sposata per sfinimento non sapevo più cosa pensare; Samantha sta male, molto male, e dà segni di essere potenzialmente pericolosa (ne parliamo dopo); Miranda… non lo so, non me lo ricordo, sta benissimo; Charlotte è in para dura e sembra sull’orlo di uccidere i propri figli e poi suicidarsi, perché Carrie insegna che i bambini sono un peso e una maledizione e vigliacco se il resto del film prova a darle torto.
Comunque: grazie al pretesto più inverosimile dell’Universo le quattro finiscono in vacanza ad Abu Dhabi a spese di uno sceicco, e qui cominciano le tragedie.

La prima tragedia è che intere sequenze sono costruite esclusivamente per giustificare un’unica gag invariabilmente terribile, a partire dalla scelta stessa della location che forza Cynthia Nixon ad escogitare un’espressione e un tono convincente e dignitoso per esclamare con eccitazione “Abu Dhabi Doo!”. Un altro esempio ha a che fare con i cammelli, ma ve lo risparmio, forse ci arrivate da soli.
La seconda tragedia è quella che affligge un po’ tutte le opere di fiction americane ogni volta che decidono di andare in gita al di fuori dei loro 50 Stati. Che ritratto faranno della cultura che non conoscono (e non vogliono conoscere) di turno? Quanto sarà onesto, equilibrato e accurato da 0 a 10? Batterà il record storico di 5?
Ad Abu Dhabi in principio è tutto relativamente sotto i livelli di guardia: il palazzo lussuoso con gli schiavi, il mercatino semi-losco, il discoclub moderno e occidentalizzato, il burqini…
Poi la demenza senile di Samantha esplode. Si comincia col farle notare che indossa vestiti inappropriatamente scollati: lei inizialmente risponde “oh, hai ragione”, ma nella scena dopo passa già al “fottesega, stai zitta”; segue ostentazione di gesti osceni a gratis che se si evitavano eravamo tutti più contenti, e infine se ne va con un bell’uomo materializzatosi secco da una copertina di Harmony, che se la spalpeggia finché la polizia non li becca a limonare in spiaggia come due spensierati teenager di 28 e 58 anni e li arresta. Qui se non altro c’è la scena in cui Miranda, avvocato, serve a qualcosa. Poco prima c’era stata anche la scena in cui a Miranda e Charlotte era stato concesso un momento di gloria sotto i riflettori, un dialogo intenso solo tra loro due, un meritato contentino alle due ormai storiche attrici della serie ormai ridotte ai Potsie e Ralph della situazione, ma nessuno ascoltava.

Ma fin qui ancora tutto bene: Samantha arrestata per aver violato alla chissenefrega le leggi locali, sceicco incazzato, vacanza annullata… tutto buono e giusto.
Poi ecco che salta il proverbiale bottone dei pantaloni.
Il paternalismo yankee fa il suo primo ingresso trionfale quando Carrie lascia una lauta e compassionevole mancia al suo schiavo con tanto di biglietto “vai a trovare la tua famiglia”.
Poi la scena madre di Samantha: le si rompe la borsetta in mezzo al mercato lasciando cadere tutte le cianfrusaglie varie che le servono per trombare, lei scoppia, il film scoppia, lei si mette a fare gestacci di natura sessuale isterico-orgogliosi da fare invidia al peggior Enzo Salvi e il film stavolta la spalleggia. Basta con questi arabi casti e puritani! Ma farete ben sesso anche voi, o no? Oppressori della libertà di espressione che non siete altro? Toh, toccate un vibratore, patetici frustrati uomini delle caverne (giuro, succede)! Ed ecco che mentre la folla inferocita insegue le nostre libere e moderne protagoniste, alcune donne locali offrono loro una via di fuga e… lo indovinereste? Sono un gruppo di fulminate dal sogno americano con il culto di New York manco fosse la città perduta di Atlantide, e sotto il burqa indossano abiti griffati, e signore e signori ecco a voi una delle scenette più tristi, retrogradi e sconcertanti di tutti i tempi. E vissero tutti felici e contenti.

Poi non so… devo parlare anche di come si vestono?
Voglio dire, io ero convinto che il senso del film fosse questo: la passerella di moda, moda ricca e bella per fornire ispirazione, e occasionali pessimi abbinamenti per non scoraggiare/alienare.
Fosse questo il caso, zero problemi: shopping-porn, perché no, e il contorno di discorsi piccanti ci sta tutto, e ok anche le protagoniste superficiali/funzionali. Non è il mio genere neanche per sbaglio, ma è un concetto che capisco.
Il problema nasce quando l’autoindulgenza galoppa e, con regia e attrici che inseriscono allegramente il pilota automatico, si crede di poter fare anche altro, tipo la commedia situazionista o – peggio – del moralismo. A quel punto il film crolla di colpo nelle soluzioni più becere e arretrate immaginabili, diventa fastidioso per chiunque abbia involontariamente scordato il cervello semi-acceso, e la durata epica contribuisce in modo decisivo a farne un mattone indigesto di proporzioni indimenticabili.
Sex & the City è stato un passaggio sicuramente fondamentale, necessario e liberatorio per la rappresentazione delle donne in tv, ma questo film rende scarsissima giustizia alla sua importanza e sono contento che si sia deciso di chiuderla lì e che nel frattempo ci si sia evoluti ulteriormente.
Così com’è rimasto, non lo consiglierei neanche al mio peggior nemico.

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