Luke Cage, il peso di Harlem e le radici dell’odio: la recensione della stagione 2

Luke Cage, il peso di Harlem e le radici dell’odio: la recensione della stagione 2

Di Lorenzo Pedrazzi

Quando Marvel Television e Netflix annunciarono il progetto dei Difensori, apparve chiaro fin dal principio che l’identità di questi personaggi sarebbe stata visceralmente legata alle rispettive comunità locali, ovvero i quartieri di New York dove Daredevil, Jessica Jones, Luke Cage e Iron Fist operano su base quotidiana: un sottobosco criminale lontanissimo dalle avventure planetarie degli Avengers, che pure condividono il medesimo universo narrativo. Degli eroi sopracitati, Luke è indubbiamente quello che intrattiene il rapporto più articolato con il suo circondario, Harlem, poiché lo storico quartiere dell’Uptown newyorkese si riconosce in un singolo retaggio etnico-culturale, quello degli afroamericani, e Power Man è il loro campione indiscusso.

ATTENZIONE: CONTIENE SPOILER MINORI

Se la prima stagione di Luke Cage dichiarava apertamente i suoi debiti nei confronti della Blaxploitation (la stessa onda cavalcata anche dal fumetto di Archie Goodwin e George Tuska), la seconda approfondisce invece la simbiosi tra l’eroe e la sua casa, nell’amara consapevolezza di non poter ridurre la complessità di Harlem alla logica binaria di un vigilante metropolitano. Non a caso, lo showrunner Cheo Hodari Coker sceglie ancora una volta di parcellizzare gli antagonisti, ma rende più ambigui i confini morali che separano le rispettive missioni. L’unica certezza, all’inizio della stagione, è che Luke (Mike Colter) sia diventato una vera e propria star nel suo quartiere: circondato da una miriade di fan, pedinato da un’app che traccia ogni suo movimento, Power Man si sente invincibile, e questo eccesso di sicurezza preoccupa l’amata Claire (Rosario Dawson), che cerca di riportarlo coi piedi per terra. Intanto, Mariah Dillard (Alfre Woodard) e Shades (Theo Rossi) progettano di vendere il commercio di armi ad altri gruppi criminali per passare definitivamente ad affari più leciti, ma sulla scena di Harlem si presenta un nuovo contendente, Bushmaster (Mustafa Shakir), leader della malavita giamaicana che nutre un odio esasperato per Mariah e la sua famiglia. Bushmaster consuma un impasto a base di Nightshade – una pianta nativa del suo paese – che gli conferisce forza e resistenza sovrumane, grazie alle quali riesce a stendere persino Luke. L’eroe si ritrova quindi tra due fuochi: Bushmaster e Mariah si fanno la guerra per il monopolio criminale di Harlem, mentre Misty Knight (Simone Missick) cerca un modo per incastrare entrambi, coadiuvata dal braccio bionico che Danny Rand (Finn Jones) ha fatto costruire per lei.

È ormai chiaro che da Luke Cage non si possa pretendere lo spessore iconico dei fumetti Marvel, animati da un dinamismo e da una fantasia che lo show non tenta nemmeno di emulare. La razionalizzazione del personaggio spinge verso altre direzioni, in particolare il poliziesco e la gangster story, tant’è che il lato “supereroistico” è abbastanza marginale: ragionando in termini di mero screen time, la maggior parte del tempo è dedicata agli scontri interpersonali, ai conflitti psicologici, alle indagini investigative e, più in generale, alla costruzione della mitologia dei personaggi, la cui importanza è effettivamente primaria. Si tratta però di un’arma a doppio taglio. Tredici episodi paiono eccessivi per queste trame orizzontali (anche Jessica Jones aveva lo stesso problema), e alcune puntate centrali girano a vuoto, diventando ben presto tediose nei loro sforzi di riempire lo spazio tra uno snodo del racconto e quello successivo. Di contro, non si può negare che i villain siano ben caratterizzati, poiché la serie si prende tutto il tempo per rimpolparne il passato: ciò che ne deriva è una faida familiare tra individui forgiati dalla sofferenza, le cui radici affondano nella Storia. Bushmaster e Mariah sono gli esponenti di una guerra tra oppressi, figli della schiavitù dei loro antenati, e quindi ancor più decisi a riscattare il proprio ruolo sociale in un paese che li guarda tuttora con diffidenza, in quanto “diversi”; così, invece di coalizzarsi contro l’oppressore bianco, preferiscono distruggersi a vicenda per tentare la scalata a quella stessa società che li rifiuta. In tal senso, Luke Cage getta uno sguardo molto lucido sulle battaglie che tormentano l’anima black degli Stati Uniti, e spesso è proprio Luke a farsene portavoce: l’eroe adotta una hoodie come proprio tratto distintivo, gesto politico che omaggia Trayvon Martin e tutti gli altri ragazzi malmenati o uccisi dalla polizia, solo perché giudicati “sospetti” dallo sguardo discriminatorio dei bianchi. In un mondo dove i neri sembrano avere solo due possibilità (compiacere i bianchi o incarnare le loro paure, come dice Luke), l’eroe di Harlem deve offrire una soluzione alternativa, trovando nella propria cultura, nelle proprie tradizioni, lo slancio vitale per un’esistenza autonoma. Non c’è quindi da stupirsi che lo show segua il ritmo dell’hip hop, del blues, del funky e del rap, ricavando da quest’ultimo buona parte della sua poetica: nell’ambiente criminale di Harlem, il rispetto è riservato a chi “ce l’ha fatta”, chi è riuscito a emanciparsi dalla povertà e sa far circolare il denaro. L’esercizio del potere incute timore, ma anche ammirazione.

Lo stesso Bushmaster è un personaggio con cui è inevitabile simpatizzare, al punto che la vera antagonista risulta essere Mariah, al centro di una deriva psicotica che Alfre Woodard valorizza con una performance febbricitante. È indubbiamente una storia di eredità paterne e materne, di fallimenti genitoriali che si riflettono sui figli, come dimostra l’introduzione del padre di Luke (il compianto Reg E. Cathey) e della figlia di Mariah, Tilda (Gabrielle Dennis), che i lettori dei fumetti conoscono con lo pseudonimo di Nightshade: pur essendo vittima a sua volta di un processo di razionalizzazione, il suo arco narrativo è sostanzialmente la genesi di una supervillain, quindi la rivedremo in futuro. È però il sopracitato Bushmaster a catalizzare l’attenzione, soprattutto grazie all’ammaliante combinazione di malinconia e sfacciataggine che traspare dal suo personaggio, a cui Mustafa Shakir – visto in The Night Of e The Deuce – dona uno sguardo magnetico e un delizioso accento giamaicano. Al di là di questo, i traumi del suo passato si accattivano facilmente l’empatia del pubblico (metodi a parte), rendendo più sfumati i confini morali tra le azioni dei vari contendenti; lo stesso Luke è costretto ad accettare compromessi impensabili, imboccando una strada pericolosa che si apre su scenari inquietanti, e che potrebbe mettere a rischio il suo ruolo di “moralizzatore” della comunità afroamericana.

Appurate le sfaccettature della trama corale e la complessità delle radici culturali, le carenze della seconda stagione riguardano il puro e semplice intrattenimento. La narrazione tende a dilatarsi eccessivamente nel corso dei tredici episodi, e le scene d’azione degne di nota sono poche: Bushmaster offre a Luke un buon livello di sfida, ma il senso di meraviglia che dovrebbe caratterizzare le imprese sovrumane è una chimera ormai lontana, se si escludono un paio di sequenze (le più spettacolari della stagione) che fanno capolino nelle ultime puntate. Una di esse, non a caso, coinvolge la partecipazione speciale di Iron Fist, in un gustoso assaggio degli Eroi in Vendita che dimostra il grande potenziale di questa coppia. Così, mentre Danny Rand acquisisce un atteggiamento più fiducioso (una sua swagger) rispetto al passato, l’eredità di The Defenders si fa sentire nella maggiore apertura verso l’universo “espanso”, con almeno tre apparizioni illustri – Danny compreso – provenienti dalle altre serie Marvel / Netflix. La mitologia dei fumetti è una risorsa preziosa, in termini sia estetici che narrativi, e Luke Cage può trarne un grande vantaggio senza perdere la sua identità.

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