Si dice che il concetto di museo sia germogliato dalle Wunderkammer, ovvero i “gabinetti delle curiosità” che ebbero una certa fortuna tra il Seicento e il Settecento, foraggiati dalla maestosità del Barocco e dagli interessi scientifici dell’illuminismo. Le esigenze museali avrebbero poi introdotto criteri ben più rigidi per la catalogazione e sistemazione degli oggetti, ma non c’è dubbio che le Wunderkammer rappresentino un precedente significativo nella conservazione di reperti straordinari, caratterizzati da un valore storico, estetico e/o culturale: non a caso, alcuni musei nacquero proprio a partire da collezioni private, espandendo gli armadi o camere delle meraviglie in vere esposizioni pubbliche. Al di là degli scopi del collezionista (spesso tutt’altro che filantropici, ma fondati su competizione e possesso), i tesori di una Wunderkammer sono tracce di un passato irripetibile, di culture scomparse o comunque remote, e danno corpo all’utopia di superare i limiti dello spazio e del tempo: ci sbalordiscono non solo per la loro eventuale bizzarria, ma perché ci sembra quasi impossibile che siano giunti fino a noi, e che una persona ignota – in un altro luogo o un’altra epoca – li abbia concepiti, fabbricati e utilizzati.
Questo valore di testimonianza è fondamentale ne La stanza delle meraviglie di Todd Haynes, adattamento dell’omonimo libro illustrato di Brian Selznick (anche sceneggiatore). I reperti non sono semplici curiosità, ma oggetti capaci di catalizzare il passato, impronte concrete che mettono in relazione i protagonisti con la Storia collettiva e individuale. Non a caso, la trama copre due linee temporali che si alternano senza soluzione di continuità. Ben (Oakes Fegley) è un bambino che vive nel Minnesota del 1977, e che ha appena perso sua madre (Michelle Williams) in un incidente d’auto; quando scopre un volume contenente il segnalibro di una libreria newyorkese, sul quale è vergato un messaggio del padre che non ha mai conosciuto, Ben cerca di telefonare al negozio, ma un fulmine colpisce la sua casa e lo priva dell’udito. In ospedale, con l’aiuto di una cugina, riesce a scappare e prende un pullman per New York, mettendosi alla ricerca del padre. Rose (Millicent Simmonds) è invece una ragazzina del New Jersey che, nel 1927, coltiva una grande passione per Lillian Mayhew (Julianne Moore), diva del cinema muto. Sorda dalla nascita, Rose fugge dal padre dispotico per raggiungere la Grande Mela, dove vuole incontrare Lillian durante le prove del suo spettacolo teatrale.
Le loro storie sono intrecciate, e la grande abilità di Haynes risiede proprio nell’alternanza fra i due piani del racconto: il montaggio sfonda le barriere del tempo per instaurare un dialogo fra due epoche diverse, spesso usando la colonna sonora come collegamento significante, ma anche la condivisione dei luoghi, degli oggetti e degli stati d’animo. La traccia seguita da Ben è ovviamente un reperto del passato (il catalogo di una mostra dell’American Museum of Natural History dedicata alle Wunderkammer), ma lui stesso è un accumulatore di meraviglie che costituiscono il suo piccolo museo personale, idealmente contrapposto ai modellini che Rose costruisce con la carta di giornale. Il dualismo tra i personaggi – e tra le rispettive ambientazioni – è evidente nella scelta del bianco e nero per i segmenti di Rose, dove Haynes rimedia alcuni tópoi del cinema muto al fine di riprodurre l’esperienza della ragazzina, vieppiù sconvolta dall’introduzione del sonoro nelle sale cinematografiche: è l’anno di The Jazz Singer, e da quel momento, per lei, i film diventano una forma d’arte irraggiungibile. La New York del 1977 scorre invece sui ritmi del funky, indipendentemente dalla sordità di Ben, che ha perso l’udito da poco e quindi ricorda bene i suoni del mondo. La transizione fra questi piani narrativi non è mai brusca, poiché le vite dei due ragazzini procedono in simbiosi, e La stanza delle meraviglie trova una paradossale coerenza propria nella sua sostanziale incoerenza. Se le Wunderkammer miravano a distillare la meraviglia del creato in pochi oggetti rappresentativi, il film di Haynes sintetizza in sé la grande ricchezza del linguaggio cinematografico, imponendosi come una Wunderkammer della Settima Arte: la varietà delle tecniche e dei registri visivi trasmette l’idea di un’opera prismatica, felicemente legata all’impulso vitale dell’infanzia e al suo desiderio di lasciarsi stupire, ma sempre ponendosi domande sui meccanismi che regolano l’esistenza.
Le atmosfere fiabesche sono una novità per Todd Haynes, ma i suoi personaggi – com’è accaduto varie volte nella filmografia del regista americano, non solo in Carol – si ostinano a seguire l’imperativo del cuore in opposizione a norme sociali predefinite, stavolta con il candore e la pervicacia dei bambini. Così, nella ricerca di una verità a lungo taciuta, essa non può che essere svelata attraverso uno splendido diorama, che cristallizza il passato in una configurazione fissa e comprensibile: d’altra parte, il mondo silente di Rose e Ben non ha bisogno del linguaggio verbale per esprimersi, gli bastano le vibrazioni di un giradischi sulle note di Fox On the Run o la disposizione dei corpi (e dei pupazzi) nello spazio. La stanza delle meraviglie, al netto di qualche forzatura logica, è una celebrazione del potere dell’immagine che replica fedelmente la “letteratura disegnata” di Selznick, dove le illustrazioni non si limitano a supportare le parole, ma ne colmano le lacune e reggono il peso della storia sulle proprie spalle. Al contempo, però, è anche una riflessione sulle impronte che ognuno di noi lascia sul suo cammino: preziosi reperti carichi di senso e di mistero, in attesa di essere decifrati.
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