ScreenWEEK Originals Seconda Occasione
LEGGI ANCHE: Seconda Occasione: il super-west di Jonah Hex (2010)
L’ACCUSA: “È una scopiazzatura di Guerre Stellari!!!”
SVOLGIMENTO
Quanto è bello rinfacciare alla gente che si sbaglia? È divertentissimo! Quando uscì John Carter una discreta fetta della comunità nerd fremeva per la ghiottissima occasione: le ovvie similitudini con Star Wars (pure con Flash Gordon, per i meno giovani), e la grande occasione per inspirare profondamente, raccogliere tutta la saccenza di cui si è capaci ed esplodere in un trionfale “HA-HA! John Carter viene prima. È stato creato da Edgar Rice Burroughs nel 1912. SCEMO“. Vittoria!
Peccato che la vita si metta di mezzo con le sue inutili sfumature che rovinano la festa, non dico cambiando la cronologia degli avvenimenti – l’unica noiosa certezza a cui possiamo aggrapparci – ma rendendo l’osservazione comunque pertinente e degna di discussione.
Vi ricordate il remake di Poltergeist? Uscì nel 2015. Nel 2015 la saga di Insidious era già al capitolo 3, il quale da solo aveva incassato $120 milioni in tutto il mondo. La saga di Insidious era già di per sé una specie di remake di Poltergeist, da cui prendeva svariati elementi pari pari: nel momento in cui un remake dell’originale non offre nulla di sostanzialmente diverso, a chi interessa sapere che si rifà a un film del 1982? Fece circa gli incassi che fanno normalmente i cugini di Insidious, ma era costato più del triplo.
Allo stesso modo: nel momento in cui giri un film nel 2012, a chi importa che le forti sensazioni di vecchiume e déjà-vu sono dovute all’aver recuperato quel tipo di storia ed atmosfera da colui che le aveva inventate esattamente cent’anni prima piuttosto che dalle migliaia e milionate di opere che hanno ripreso/copiato/sviluppato/rielaborato quelle stesse cose nel frattempo – incluse quelle due o tre che ormai ti hanno rimpiazzato nella memoria collettiva a livello culturale/popolare? Sei nel 2012, ora. Non è più tutta campagna.
John Carter ha avuto mille problemi, e uno era questo.
Un altro era il fatto di aver stroncato all’ultimo il titolo originale, John Carter of Mars, con il quale era decisamente più riconoscibile, perché (si dice) il cartone animato Mars Needs Moms aveva appena floppato pesante e si aveva paura che la parola “Mars” portasse sfiga. O di aver buttato fuori un primo trailer con una scelta di colonna sonora terribile (cover eterea al pianoforte, ad opera di Peter Gabriel, della già depressa di suo My Body Is A Cage degli Arcade Fire) e nessuna menzione di ciò che rende tale un film evento: non il curriculum del personaggio protagonista, non quello del suo autore, non quello del regista. Come se il pubblico – quello super-medio di un film costato oltre $200 milioni – sapesse riconoscere al volo un personaggio che già da decenni ormai era stato confinato ai margini della cultura pop, e lo sapesse fare pure col titolo azzoppato.
Ci potrei passare tutta la giornata ad elencare i problemi di John Carter: il fatto è che stiamo parlando di uno dei flop più pesanti della storia, e che ai suoi multipli problemi è stato letteralmente dedicato un intero libro.
Ve la faccio quindi il più breve possibile: dopo un intero secolo costellato di tentativi di portare le sue avventure sullo schermo, l’ultimo dei quali ad opera di Robert Rodriguez, la questione finisce nelle mani di Andrew Stanton, pezzo grossissimo della Pixar, sceneggiatore di Toy Story e Monsters Inc, regista premio Oscar per Alla ricerca di Nemo e WALL-E.
Stanton è uno a cui la Disney non riesce a dire di no, e che fa di John Carter il suo progetto della vita.
Partito con mire un pelino più modeste, Stanton si ritrova con un cast privo di nomi di richiamo ma con un budget che si gonfia rapidamente per l’impraticità di applicare i metodi Pixar ai film live action. In mezzo si combattono battaglie politiche di ogni tipo, sfighe apocalittiche, cambi dirigenziali ai posti alti… Più volte si ha la possibilità di mettere un freno a una produzione i cui costi stavano lievitando ben oltre il potenziale commerciale percepito, ma in ultimo non lo si fa come segno di riconoscenza verso Stanton. A un certo punto, complice anche il trailer sopracitato – sempre approvato da Stanton – che aveva ricevuto feedback mediocre, l’impressione che il film non sarà in grado di recuperare i costi diventa netta.
Alla fine della faccenda si decide che il male minore è dare a Stanton quello che vuole per tenersi ingraziata (cioè ricattare) la Pixar, tapparsi il naso, e condannare il film a un flop matematico tagliando i costi in fase di marketing.
Che è una cosa che capita più spesso di quanto sembra: a volte vieni a sapere di flop giganteschi tipo che ne so, il recente remake di Ben Hur (prossimamente su queste pagine), e ti chiedi com’è che ne hai sentito a malapena parlare? E la risposta è che a un certo punto loro stessi hanno smesso di crederci e deciso che si perdeva meno a tagliare le spese e assicurarsi un flop “contenuto” piuttosto che dare il massimo e cadere con un tonfo sproporzionato. Il potere dei sondaggi.
Ma veniamo al film, per la miseria!
Dicevamo: il metodo Pixar (gira, monta, guarda, correggi, rigira) nei live action non funziona.
A Stanton fu permesso di rifare quasi tutto il film da capo, ma a un certo punto pure lui dovette darsi una regolata e cercare di azzeccare più cose possibili al primo colpo.
Il risultato si vede: John Carter non ha il rigore di Toy Story e i suoi amici, quel rigore che aveva permesso a Stanton di ricevere ben quattro nomination agli Oscar per la sceneggiatura. È anzi abbastanza un pastrocchio che parte disorientando e ci mette del tempo a ingranare.
È simpatica l’idea di coinvolgere Edgar Rice Burroughs come personaggio imparentato col protagonista, di cui impara la storia leggendola da uno strano testamento, ma al di là di quello si arriva alla mezzora con troppe domande.
Quando il nostro indecifrabile eroe arriva su Marte, nota nella lingua dei nativi come Barsoom, la storia si fa più lineare e ingrana.
C’è il modo di godersi i soldi spesi, fra le scenografie lussuose e le animazioni dettagliate – specie il Tars Tarkas interpretato in motion capture da Willem Dafoe, di cui mantiene l’espressività pur cambiandone i lineamenti.
C’è il modo di ammirare la squadra Pixar in azione su quello che per loro è un gol a porta vuota, ovvero il cagnolone marziano Woola.
Ma soprattutto c’è il modo di far respirare la storia e rispiegare la situazione con calma, infilando momenti simpatici fra Carter e Tarkas, e buttandosi a turno su tutti i luoghi classici del romanzo di avventura fantastica fracassona.
Ovviamente i protagonisti vanno un minimo aggiornati: l’eroe è forte e coraggioso ma anche irruento e un po’ coglioncello, la principessa va tecnicamente salvata ma in realtà sa difendersi da sola ed è soltanto stata incastrata in una situazione un po’ troppo delicata.
Ma quando si arriva al cuore della faccenda funziona tutto alla grande, c’è un entusiasmo bambino talmente contagioso che fa perdonare gran parte delle approssimazioni e si respira davvero l’aria dell’avventura fracassona d’altri tempi: marziani verdi, eroi ed eroine seminudi, grandi battaglie, mostri giganti da sconfiggere nell’arena, e il fascino ingenuo del voler stupire con un protagonista che fa salti giganti come solo un eroe pre-Superman può pretendere.
Peccato quindi per alcuni soluzioni ormai troppo vecchie per non risultare stantie, e per un ritmo balbettante.
Il film esce a marzo, periodo teoricamente sgombro di rivali, ma riesce a finire al secondo posto dietro a Lorax – Il guardiano della foresta. L’incasso finale si attesta sui $70 milioni negli USA (un quarto del budget) e il capo stesso della Disney finisce per dare le dimissioni. Qualcuno tira in ballo una similitudine superficiale anche con Prince of Persia (sabbie, eroi seminudi).
Stanton se ne sta buono per un po’, poi torna con Alla ricerca di Dory e rifà l’esperienza live action dirigendo due episodi di Stranger Things.
La Disney stessa trova un altro flop pesantissimo l’anno seguente, in condizioni molto simili, con Lone Ranger di Gore Verbinski, poi decide di rinunciare e passare il suo tempo a comprare la concorrenza.
In tutto questo la vittima più ingiusta è forse Taylor Kitsch, all’epoca giovane emergente, più che capace di reggere il ruolo da protagonista con energia, carisma e fascino zoticone, ma che ebbe la sfiga di infilare non solo questo ma anche l’altro flop più ingiusto del 2012, lo spacconissimo Battleship di Peter Berg. Oggi sconta la reputazione del portasfiga e lo si vede spuntare come comprimario affamato di riscatto in filmetti insulsi come American Assassin.
Ma la cosa più divertente è che la Asylum per una volta aveva anticipato tutti di addirittura tre anni facendo uscire un suo A Princess of Mars nel 2009 (poi ridistribuito come John Carter of Mars), con Antonio Sabato Jr nei panni dell’eroe e nientemeno che l’ex-pornostar Traci Lords in quelli della principessa.
Ora mi guardo anche quello e vi faccio sapere.
VERDETTO: ingenuo e confusionario ma con grande cuore, meritava una produzione più modesta che avrebbe unito nonni e nipoti nel nome delle basi del fantasy avventuroso.
COS’HO IMPARATO: a volte, dice il saggio, arrivare troppo prima equivale ad arrivare dopo.
Vi invitiamo a scaricare la nostra APP gratuita di ScreenWeek Blog (per iOS e Android) per non perdervi tutte le news sul mondo del cinema, senza dimenticarvi di seguire il nostro canale ScreenWeek TV.
ScreenWEEK è anche su Facebook, Twitter e Instagram.
[widget/movie/13302]