“Dopo 25 anni a fare e disfare, finalmente…” è questa una delle prime didascalie che annunciano l’inizio di The Man Who Killed Don Quixote, un modo per sdrammatizzare una delle avventure produttive più assurde di sempre, basti pensare che in passato il ruolo di cavaliere contro i mulini a vento è stato assegnato, senza mai arrivare completamente a compimento, a Jean Rochefort a Robert Duvall, Michael Palin e John Hurt. Alla fine il ruolo è toccato a Jonathan Price, ma ciò che davvero si pensa durante la visione della pellicola è: come sarà stata la sceneggiatura del primo Don Quixote di Terry Gilliam?
Ce lo si chiede perché la sua, finalmente, definitiva versione cinematografica è un film nel film nel film: un regista che aveva già realizzato un lavoro low budget sull’eroe di Cervantes si ritrova 11 anni dopo negli stessi luoghi per farne una versione più ricca e ambiziosa. I ricordi e le persone coinvolte nel progetto all’epoca riemergono però dal passato per entrare prepotentemente nel presente e ciò che è fantasia si trasforma in realtà. “I film cambiano irrimediabilmente le persone” sembra dirci Gilliam, se non tutti sicuramente quelli che hanno a che fare con Don Quixote. E allora il viaggio del vero protagonista della vicenda, il fantomatico regista Toby (Adam Driver), può ricordare quello che sicuramente ha vissuto Gilliam quando è tornato negli anni a fare i sopralluoghi per l’avvio di un film che era stato interrotto nel 2000 quando Jean Rochefort lasciò il set per una grave infezione alla prostata, un nubifragio rovinò l’equipaggiamento e cambiò irrimediabilmente le dune scelte come location e un investitore si ritirò improvvisamente dal progetto (tutti eventi raccontati nel documentario Lost in La Mancha).
Nonostante alcune simpaticissime trovate narrative e quella bislacca e irresistibile visionarietà capace di unire in sequenza puntini numerati appartenenti a pagine diverse della stessa Settimana Enigmistica, The Man Who Killed Don Quixote rimane un film godibile solo se lo si lega a doppio filo con la storia che ne ha portato alla realizzazione, un abbraccio di Gilliam al suo spettatore accompagnato da un malinconico “dai ridiamoci su assieme”. Per il suo cinema, così fuori dagli schemi, fantastico senza essere fantasy (o non per forza), epico, ma libero da supereroi e effetti speciali, romantico nella misura in cui può essere la passione di un artista per il progetto “di una vita” chissà se ci sarà ancora un posto in futuro.
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