Ora che abbiamo raggiunto il centro del labirinto, dobbiamo trovarne l’uscita: la seconda stagione di Westworld riprende il discorso lasciato in sospeso nel precedente season finale, quasi un anno e mezzo fa, per espanderne gli orizzonti e cercare strade nuove. D’altra parte, si sa, le serie migliori sono quelle che hanno il coraggio di rinnovarsi, ed è chiaro che Jonathan Nolan e Lisa Joy non hanno intenzione di tornare sui loro passi.
La reiterazione di meccanismi già noti, a ben vedere, sarebbe stata impossibile. La prima stagione di Westworld narrava la lunga e articolata premessa di un evento cruciale, ovvero l’emancipazione degli host e lo sviluppo di un pensiero autocosciente, che permette loro di conquistare una propria individualità: è una svolta radicale, da cui non si può tornare indietro, e gli autori stessi devono prenderne atto. Di conseguenza, la seconda stagione si muove in territori sconosciuti ma eccitanti, dove il mistero non risiede più nel passato del parco e dei suoi abitanti, ma nel loro inquietante futuro. Premetto che in questo articolo cercherò di ridurre al minimo gli spoiler, ma dovrò inevitabilmente svelare qualche dettaglio sui primi cinque episodi (quelli che ho potuto vedere in anteprima), pur evitando di soffermarmi sugli snodi principali.
È significativo che il primo episodio si apra su Bernard (Jeffrey Wright), spiazzando chiunque si aspettasse un legame diretto con il finale della scorsa stagione. L’incipit della seconda, infatti, presenta un salto temporale di entità sconosciuta, e conferma la tendenza degli showrunner a scomporre la narrazione in diversi livelli sovrapposti che si giustificano l’un l’altro. Senza scendere nel dettaglio, è chiaro che non ci troviamo nelle fasi immediatamente successive alla ribellione di Dolores (Evan Rachel Wood), e il cuore delle nuove puntate batte proprio in questo enigma: cos’è successo nel mezzo? Quali fenomeni hanno portato all’attuale presente? Se il gioco dei piani temporali stavolta è palese, il senso di mistero resta comunque ben percepibile, e il merito è proprio di Bernard: il capo della Divisione Programmazione – ora consapevole di essere un host – è la nostra guida all’interno del racconto, le cui sfumature corrispondono alle ambiguità caratteriali del personaggio. Jeffrey Wright è bravissimo a rappresentarne le oscillazioni psico-emotive, dando corpo a un individuo frastornato e smarrito nel dedalo della memoria, incapace di distinguere il passato dal presente; e questa confusione rispecchia la struttura del racconto, che trova un’intelligente coincidenza – tipica di Jonathan Nolan – tra forma e contenuto.
I piani temporali sono però molteplici, e consentono di allargare la mitologia di Westworld ben oltre le scoperte della prima stagione, svelandoci alcuni retroscena precedenti alla fondazione del parco. Tali segmenti sono utili anche per approfondire i protagonisti, in particolar modo William (Jimmi Simpson / Ed Harris) e la stessa Dolores. Quest’ultima è sempre più l’incarnazione della Libertà che guida il popolo, e subisce un’evoluzione che si coagula nei tratti induriti di Evan Rachel Wood, straordinaria nel mettere in scena il passaggio dell’eroina verso la consapevolezza di sé: superata la dolcezza degli esordi, Dolores è diventata a tutti gli effetti un’altra persona, determinata ad abbandonare le scorie del passato. È interessante notare come la reificazione degli host, schiavi dei loro creatori umani, riecheggi il problema dell’oppressione maschile sulla sfera femminile, e la seconda stagione calca ancora di più la mano su questo parallelismo. Non a caso, le paladine della rivoluzione sono donne, entrambe sfruttate e violentate dai visitatori del parco: da un lato c’è Dolores, agitatrice sediziosa che raccoglie l’eredità delle grandi rivoluzioni, guidando gli oppressi contro il potere costituito; e dall’altro c’è Maeve (Thandie Newton), che invece guarda al futuro e, grazie ai potenziamenti implementati nel suo codice, diviene l’emblema perfetto non solo del post-umano, ma anche del post-inorganico, essendo dotata di “poteri” inusuali. Se Dolores vede gli androidi come un passo ulteriore nella scala evolutiva, Maeve si spinge ancora più lontano di così, pur essendo guidata da istinti ed emozioni molto “umane” (il desiderio di salvare sua figlia).
Ciò che ne deriva è l’estrema mobilità delle psicologie, all’interno di uno schema ricorrente: la coscienza di sé matura nella sofferenza, il dolore plasma o corrompe il carattere. Tutti i personaggi principali affrontano un’evoluzione che li allontana dal loro vecchio “sé”, e chi resta fedele al passato – come Teddy (James Marsden), ovvero la campionatura del “bravo ragazzo” – è costretto a mutare contro la propria volontà. All’opposto, l’Uomo in Nero dell’impeccabile Ed Harris non è refrattario al cambiamento, e si rende protagonista di una scena grandiosa che lascia filtrare un barlume di luce nella sua natura spietata: il nuovo status quo del parco rappresenta per lui un grande stimolo, e infatti non ci pensa due volte ad accettare la sfida di Robert Ford (Anthony Hopkins) per trovare la misteriosa “porta”, fulcro di questa stagione. L’impressione è che, mentre il “labirinto” proiettava i personaggi verso l’interno, la “porta” li spingerà verso l’esterno, che può significare libertà, salvezza o guerra contro i tiranni, a seconda dei casi.
Il punto, comunque, è che Westworld dimostra di voler battere sentieri ancora vergini: il vecchio “sistema” è ormai esploso, e i protagonisti si muovono circospetti tra i suoi detriti. Il cortocircuito che ne scaturisce è ben rappresentato dall’introduzione di Shogunworld, utile a stravolgere la serie anche sul piano estetico e ambientale: tra ninja, katane e samurai, gli autori hanno modo di rinfrescare l’azione con validissime coreografie all’arma bianca, ma senza dimenticare i paradossi che questo nuovo mondo si porta dietro. Anche in questa circostanza, peraltro, non c’è nulla di gratuito, ma serve a innescare la crescita dei personaggi attraverso l’esperienza dell’altro da sé (che, senza svelare troppo, diventa un reciproco “specchiarsi”). A giudicare dai primi cinque episodi, pare che la serie abbia parzialmente smarrito la sua densità tematica, proprio perché la maggior parte delle implicazioni antropologiche, filosofiche ed esistenziali sono state già sviscerate nella prima stagione; in compenso, però, le nuove puntate tendono di più verso la narrazione pura, con sviluppi più immediati e concatenazioni logiche più trasparenti, che raggiungono l’apice nello splendido quarto episodio, The Riddle of the Sphinx (di ben 71 minuti, e diretto dalla stessa Lisa Joy). Il risultato è ammaliante e ricco di promesse, impreziosito da dialoghi raffinati che riecheggiano la qualità dei valori produttivi: Westworld si conferma una serie di altissimo livello, sempre disposta a rischiare pur di rinnovarsi, facendo sempre appello all’intelligenza del pubblico.
Voto: ★★★★ 1/2
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