Un uomo vede qualcosa che lo turba in uno specchio, e stranamente non è la sua faccia. Colto da un raptus, distrugge tutti gli specchi di casa, procurandosi un numero inquantificabile di anni di disgrazia. Ma tanto non gli importa, perché si toglie la vita. È l’allegrissimo e teoricamente inquietante prologo di Requiem, serie in sei puntate di BBC One trasmessa Oltremanica a febbraio e sbarcata da qualche giorno anche da noi su Netflix. Di cosa parla? Di una bambina scomparsa, di presenze e di una violoncellista che sembra uscita da una pubblicità di H&M.
Matilda non ha preso i soldi ed è scappata in Venezuela, come in quella vecchia canzone di Harry Belafonte, no. La signorina Grey (Lydia Wilson, vista tra le altre cose in Misfits e nel primissimo episodio di Black Mirror, quello del maiale abusato) è una concertista di successo, con il suo violoncello e l’amico/confidente Hal (Joel Fry, l’impronunciabile Hizdahr zo Loraq, il sosia giovane di Lionel Richie de Il Trono di Spade). Ma proprio alla vigilia di una serata importante, un improvviso e scioccante lutto apre nella sua mente tutta una serie di interrogativi. Per rispondere a questi ultimi, lei e Hal partono per un’immaginaria cittadina del Galles. E tutta la serie, in pratica, l’hanno girata da quelle parti, comprese le scene ambientate a Londra, perché dietro ci sono i soldi del governo gallese, tipo. Matilda e Hal cercano di far luce così sulla storia di una bambina scomparsa, collegata in qualche modo alla famiglia di Matilda. La reazione degli autoctoni ai due ficcanaso provenienti dalla finta Londra? Ostile, chiaro. Che domande, pure voi.
Il tono diventa sin dalla fine del primo episodio quello di un numero qualsiasi di Dylan Dog uscito negli ultimi trent’anni. Il mistero da svelare per i forestieri londinesi, nonostante la popolazione locale affettuosa come pensionati a cui stai fregando il numerino della fila all’ufficio postale, fatta salva qualche anima caritatevole che – a fidarsi – darà una mano ai nostri eroi. Ed ecco, anche se dietro ci sono i produttori della riuscita The Missing, non è che Requiem brilli particolarmente per la sua storia. Soprattutto perché la trama diventa presto prevedibilissima e arriva in porto, al termine di poco meno di sei ore, senza particolari scossoni.
Il che, vero, vale comunque per buona parte dei thriller con una spruzzatina di horror visti in TV/sul tablet/wherever negli ultimi anni. Requiem ha almeno dalla sua la solidità della confezione e l’assenza di dialoghi idioti tipica delle produzioni inglese (se ne parlava, qualche settimana fa, a proposito di Collateral). Buona regia, atmosfere deprimenti il giusto – il Galles aiuta – e performance dei protagonisti tutto sommato apprezzabile, soprattutto per Lydia Wilson, perfettamente in parte nel ruolo di apatica protagonista in un mondo desaturato e pieno di casini, da giallo intinto nell’occulto.
Qualcuno vi dirà che è un thriller un po’ lento: dopo avergli dato del genio, ricordategli che succede, quando spalmi un’idea che starebbe in un film in una serie TV che dura un quarto di giorno. Nelle serie USA, in genere, ne tirano fuori almeno dieci episodi, tirandola, quella idea lì, come le braccia del giocattolo Mister Muscolo. Insomma, adottando la formula conclusiva da recensione di thriller che non siano la prima stagione di True Detective e poche altre, illuminate eccezioni, nel complesso godibile se non vi aspettate granché. Per una serata lunghissima o, se non siete binge-watcher all’ultimo stadio, un paio di sere di relax davanti alla TV/tablet/whatever. Di requie, senza la m finale.
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