Schiavi di New York #9 – Anche i dottori ce l’hanno

Schiavi di New York #9 – Anche i dottori ce l’hanno

Di Adriano Ercolani

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Ho scritto questo articolo – totalmente diverso dai precedenti della rubrica – per cercare di chiudere un cerchio ideale e capire meglio i sentimenti contrastanti che da anni provo nei confronti dello sceneggiatore Paddy Chayefsky. Procedendo nella stesura sorprendentemente complicata di queste parole mi sono posto molte domande e ho ottenuto in cambio una sola risposta. Quella che segue è la testimonianza il più possibile sincera di un incontro (forse) casuale ma diventato immediatamente un legame doloroso, un rapporto di ammirazione quasi ossessivo. Perché è probabilmente questo l’unico modo di avvicinarsi veramente a una figura talmente ambigua. Quasi del tutto dimenticato da una storia del cinema che preferisce celebrare personalità meno problematiche, Paddy Chayefsky viene citato quasi soltanto per Quinto potere (Network, 1976) di Sidney Lumet, più raramente per Marty, vita di un timido (Marty, 1955) di Delbert Mann, per i quali ha conquistato due dei suoi tre Oscar. Film che avevo apprezzato ma che non avevano saputo svelarmi chi fosse realmente il loro autore…

Il vero “incontro” con Chayefsky avvenne a notte fonda, nell’inverno del 2001. Un momento di passaggio nella mia vita di cui ancora oggi preferisco ricordare il minimo indispensabile. In quel periodo vivevo in un vecchio appartamento a Monteverde, uno dei quartieri storici di Roma. Trascorrevo notti intere davanti alla TV, alimentando uno stato depressivo dovuto principalmente alla mancanza di un lavoro stabile. Il modo migliore per fronteggiare la frustrazione era immergersi nella finzione del cinema. Incappai così in Herbert Bock, il protagonista di Anche i dottori ce l’hanno (The Hospital, 1971). Un film che avevo registrato mesi prima senza poi interessarmene, fuorviato soprattutto da un titolo italiano che lo spacciava per commedia ridanciana. Anche i dottori ce l’hanno mette in scena la stasi fisica ed emotiva di un uomo alla deriva. Bock ha scelto di rintanarsi in un microcosmo asettico e rigoroso di cui alla fine è rimasto prigioniero: il suo stesso ospedale. All’istituzione della medicina ha sacrificato ogni cosa, persino la sua famiglia. Quello stesso sistema che doveva proteggerlo e nutrire la sua vena autodistruttiva con il passare degli anni si è però fatto obsoleto, traballante a causa di un mondo esterno che reclama il cambiamento. Di fronte alla dissoluzione inevitabile di tale bolla Bock sceglie la via più vigliacca, quella dell’oblio, quando proprio quel caos che spinge dall’esterno non trova il modo del tutto imprevedibile di scuoterlo dall’interno. Ma come succede nella vita reale la coscienza e l’accettazione di uno stato di malessere non bastano a superarlo, serve la forza di reagire. E il dottor Herbert Bock non è intenzionato a farlo. Perché un personaggio così disperato, respingente nel suo nichilismo, divenne fin da subito una delle mie più durature e laceranti ossessioni cinematografiche? Si trattava di una figura di finzione che in qualche modo mi sbatteva in faccia l’immobilismo in cui mi trovavo in quel periodo oppure c’era una connessione più profonda? Possibile che dietro la persona di Herbert Bock volesse rivelarsi un’altra anima lacerata? Da quella notte ho rivisto The Hospital non so quante volte: sempre doloroso, sempre personale. Quella notte ebbe inizio di un viaggio emozionale che dura da più di quindici anni e ha attraversato il mondo…

Anche se non la stavo cercando – inconsciamente sapevo di non averne bisogno – la conferma alla mia intuizione arrivò nove anni dopo. Mad as Hell, la biografia di Paddy Chayefsky scritta da Shaun Considine, me la rivelò nella sua semplicità: dietro al personaggio si era nascosto l’autore. Nell’estate del 2010 scelsi New York come vacanza estiva. Da qualche anno lavoravo come critico cinematografico e autore televisivo in un’emittente privata che si occupava principalmente di cinema. Svolgevo la professione che adoravo, venivo ottimamente pagato, eppure di una vita realmente soddisfacente ancora non avevo traccia. Uno dei primi posti che visitai nella Grande Mela fu Strand Bookstore a Manhattan, sulla Broadway appena a sud di Union Square. Ero entrato nella libreria per cercare altre storie, finii per incontrare di nuovo Chayefsky. Mad as Hell mi confermò dunque quanto lo scrittore aveva messo di se stesso nel personaggio di Bock. Le pagine del libro dipinsero in maniera dolorosa il ritratto un uomo roso da un fuoco interiore indomabile, logorato dal desiderio di essere il migliore a ogni costo e al tempo stesso terrorizzato dall’idea di venir dimenticato. L’insicurezza lo spinse spesso al limite della sua vena creativa, e per questo talvolta fallì. La seconda metà degli anni ’60 furono per Chayefsky un susseguirsi di progetti abortiti e insuccessi troppo eccentrici per trovare il favore del pubblico, sia a teatro che al cinema. L’uomo che aveva rivoluzionato la scrittura drammaturgica nel decennio precedente sembrava ora incapace di produrre altro se non rancore e autocommiserazione. Uno stato di depressione pressoché cronica, alimentato da un ego tanto smisurato quanto fragile, lo portarono fino all’orlo del suicidio, accennato ma non confermato dalle pagine di Considine. Paddy Chayefsky morì nel 1981 a soli 58 anni dopo aver rovinato quasi totalmente l’ultimo periodo della sua vita a causa del progetto più ambizioso, Stati di allucinazione (Altered States, 1980). Dopo l’abbandono di Arthur Penn il film venne realizzato dall’incontrollabile Ken Russell, il quale stravolse completamente sia la storia che le idee alla base della sceneggiatura. Devoto al suo lavoro, maniaco assoluto del controllo, lo sceneggiatore ne rimase devastato. Dopo essere sopravvissuto a un attacco cardiaco pochi anni prima Chayefsky alla fine si arrese, decise di non combattere il male che lo stava consumando. “I medici non mi hanno mai perdonato quel film. Adesso me la stanno facendo pagare…” dichiarò sarcastico all’amico Arthur Schlesinger Jr. pochi giorni prima di morire.

Pochi giorni dopo sfidai il caldo estivo e mi recai nella contea di Valhalla, a nord di New York. Avevo finito la biografia la notte precedente. Non fu difficile trovare il Kensico Cemetery, ci vollero ore invece per arrivare alla piccola sezione degli Sharon Gardens, dove è situata la tomba di Chayefsky. Rimasi qualche minuto in piedi davanti alla lapide abbracciando il silenzio quasi assoluto intorno a me, poi mi sedetti all’ombra di un albero distante pochi passi. Nell’atmosfera sospesa di quel posto cercai di capire perché ero venuto fin lì. Certamente non per pregare. Forse per tributare il mio personale omaggio a uno dei più grandi sceneggiatori mai vissuti, frustrato dal fatto che non fosse ricordato come meritava? Anche quella mi sembrava una risposta poco convincente. Mi presi il tempo necessario per riflettere meglio, cosa che allora stavo imparando a fare giorno dopo giorno. Se volevo capire perché continuavano a ossessionarmi la figura di Chayefsky e il suo alter-ego Herbert Bock forse dovevo rivolgere lo sguardo altrove. Verso me stesso. L’artista e la sua creazione mi avevano trasmesso qualcosa che non avevo ancora avuto il coraggio di confessarmi. Il fatto che condividessi con loro un dolore interno, profondo. Il rancore verso me stesso e le gabbie che continuavo a costruirmi intorno. Adesso era il mio lavoro a rappresentare la gabbia dentro la quale avevo rinchiuso il resto della mia vita, compreso ciò che non ancora non funzionava ma continuava a lacerarmi. Il dottor Bock nella finzione di The Hospital e poi Chayefsky avevano ceduto a questa pulsione autodistruttiva, erano stati sconfitti nella loro illusione che il successo, qualsiasi cosa volesse dire, potesse interamente definirli come esseri umani. Stava succedendo anche a me? A trentasette anni era arrivato il momento di capirlo. Seduto all’ombra di un piccolo albero, accanto alla tomba di uno scrittore che amavo con tutto l’odio possibile, vissi uno dei momenti fondamentali per la decisione che cambiò la mia vita.

Nell’estate dell’anno successivo scelsi di non rinnovare il mio contratto e mi trasferii a New York. Avevo capito cosa mancava: equilibrio. A quasi sette anni da quella scelta posso scrivere con malcelata soddisfazione che ci sono molto vicino…Sono tornato a essere un freelance: non guadagno come prima ma amo con sempre maggiore forza il mio lavoro, soprattutto perché non mi definisce più come essere umano. È una parte importante di me, non l’unica. In tutti questi anni Strand Bookstore ha continuato a essere una tappa fissa delle mie passeggiate per Manhattan. Qualche giorno fa setacciando come al solito le scaffalature di libri usati ho trovato una copia originale di The Tenth Man, uno dei più grossi successi teatrali di Chayefsky, messo per la prima volta in scena il 5 novembre 1959. Dentro il tomo una dedica brevissima, scritta con una calligrafia incerta: “To Malcolm & Louise from Fran, August 1st, ’60”. La fantasia si è messa in moto, ho immaginato un’anziana signora che donava quel libro per ringraziare la coppia di averla portata a vedere lo spettacolo. Probabilmente Fran, Malcolm e Louise erano stati testimoni di un momento di successo, di realizzazione nella vita dello scrittore. Seppur sopito da una serenità ormai raggiunta e ormai consolidata, il ricordo di Paddy Chayefsky e di cosa The Hospital hanno rappresentato per me non mi ha abbandonato: quelle parole così semplici hanno risvegliato ancora una volta il desiderio di confrontarmi con quell’uomo, anche se stavolta con una prospettiva nuova…

La New York Public Library of Performing Arts nell’Upper West Side conserva nei propri archivi una sezione interamente dedicata allo sceneggiatore. La mia richiesta di consultarne alcune parti è stata vagliata e accettata in pochi giorni. Seduto ancora una volta in silenzio, stavolta nella sala per le consultazioni speciali, ho letto parte della sua corrispondenza privata, ho osservato le sue foto personali o scattate sui vari set. Ancora una volta un confronto indiretto, traslato dal tempo ma non per questo meno intimo. Ho trovato esattamente quello che mi aspettavo: nulla. La cortese stringatezza dei suoi scambi epistolari mi ha confermato l’idea di un uomo distaccato, altero, mosso da un malcelato senso di superiorità. Un aspetto della sua personalità che probabilmente serviva per nascondere l’insicurezza o la scarsa autostima. Tra le righe ho scorto anche un Chayefsky ambiguo se non addirittura doppio nei confronti dell’universo femminile. Nelle sue scritture private ci sono almeno tre lettere di stima e supporto a Kim Stanley, attrice di stampo teatrale che scelse come protagonista de La divina (The Goddess, 1958), film attraverso cui lo scrittore aveva tentato dar voce alla sua ossessione personale per il mito di Marilyn Monroe. Nella trascrizione di un’intervista rilasciata alla Columbia University nel 1959 invece Chayesfky incolpava totalmente l’attrice del mancato successo del film, imputandole mancanza di preparazione e personalità. Altro indizio: nelle foto di scena di The Hospital lo sceneggiatore e produttore è più volte immortalato insieme alla protagonista Diana Rigg, spesso in atteggiamento confidenziale, mentre c’è una sola foto in cui si confronta visibilmente stizzito con l’”odiato” George C. Scott (altra personalità a dir poco complessa…), interprete del dottor Bock. Arthur Hiller, il regista che realizzò insieme a lui The Hospital, un un’altra lettera rivela tutta la sua frustrazione: “Ho visto il film e ti ho maledetto ad alta voce per aver rovinato il ritmo e la struttura togliendo la scena di confronto tra Mead e Drummond. Un giorno mi rifarò.” Altrove ho invece intravisto i segni tangibili della sua depressione, soprattutto in una lettera indirizzata al grande scrittore Ray Bradbury, il quale lo aveva pubblicamente elogiato dopo il successo di Quinto potere: “Sono così maledettamente artificioso in tutto. Mi sforzo sempre troppo nel risolvere i problemi del lavoro quotidiano. (…) Negli ultimi due anni sono diventato sempre più disorganizzato. Non seguo più orari regolari, così quando entro nel mio ufficio è un crescente senso di panico che mi prende mentre mi siedo nel mio cantuccio per lavorare. E questo ovviamente significa che cerco di evitare ogni responsabilità…” Nella corrispondenza sviluppata con Richard Burton, a cui propose il ruolo di protagonista di una produzione mai realizzata dal titolo Right Smack into the Wind, Chayefsky scrisse: “Sono un uomo arrogante, dalla pelle dura, quindi non c’è bisogno che tu sia gentile: se non ti piace, dillo e basta.”

Tutto quello che ho letto o visto in questi ultimi giorni su di lui non cambia la sostanza dei fatti, né la mia stima assoluta per la sua opera di scrittura. Paddy Chayefsky era una personalità complessa, ambigua, addirittura discutibile. E forse proprio per questo era un genio della scrittura, sincero e appassionato. Ancora Arthur Schlesinger nella sua lettera di condoglianze per la sua morte scrisse: “Il suo chiodo fisso erano le energie corrotte e malate nascoste sotto la nostra società moderna, in istituzioni come la medicina, la televisione, l’esercito o la ricerca. Quelle stesse energie che poi esplodono follemente attraverso la superficie fintamente razionale delle cose.” Questo era Paddy Chayefsky. E cosa ho invece capito io alla fine? Qualcosa di banale e insieme fondamentale: fin da quella prima notte di fronte al televisore il percorso iniziato con lui non era stato di scoperta, ma di accettazione. Ciò che The Hospital mi ha sussurrato in tutti questi anni è che non esiste scappatoia dal dolore, non si può sfuggire alla frustrazione. L’essere umano non è vittima del proprio tempo, ne è il carnefice. Un tempo condividevo questa visione, ora per fortuna non più. Se da quell’idea mi sono liberato lo devo in parte anche all’esempio (negativo) del dottor Herbert Bock. E del suo creatore. Ogni tanto, nei giorni più difficili, posso ancora vedermi riflesso nello specchio della loro anima torturata. Quei giorni però sono sempre più sporadici. E soprattutto non ho più paura di scivolarvi dentro…

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