Il matrimonio conflittuale tra cinema e videogiochi ha radici molto salde, che affondano nell’influenza reciproca. Lo stesso Rampage, storico arcade creato nel 1986 da Midway Games, traeva ispirazione dai kaijū eiga giapponesi e dai monster movie americani, operando un ribaltamento di prospettiva: i giocatori erano chiamati a identificarsi con i mostri che seminavano morte e distruzione nelle città americane, divorando persino i malcapitati esseri umani che cercavano di sfuggire alla loro furia. Ovviamente non esisteva una vera e propria trama, bensì uno schema ripetitivo a difficoltà crescente, come nella maggior parte degli arcade.
Per adattarlo sul grande schermo, il regista Brad Peyton e il co-sceneggiatore Ryan Engle hanno dovuto costruire l’intreccio praticamente da zero, giustificandone il soggetto in un impianto narrativo più ampio. Ciò che ne deriva è un copione strutturato su misura per le esigenze di un blockbuster, dove sono i personaggi umani a determinare la storia: al centro della trama c’è infatti Davis Okoye (Dwayne Johnson), primatologo di estrazione militare che si prende cura di George, un rarissimo gorilla albino ospitato dallo zoo di San Diego. Quando George entra in contatto con un patogeno sintetizzato da una multinazionale senza scrupoli, il pacifico gorilla comincia a crescere in maniera incontrollata, accumulando inoltre un’aggressività che trova sfogo nella distruzione di tutto ciò che lo circonda. La genetista Kate Caldwell (Naomie Harris) era a capo dell’esperimento, e raggiunge immediatamente Okoye per indagare sull’incidente. La situazione, però, precipita nel giro di poche ore: George diventa sempre più grande, e ben presto si ritrova affiancato da Ralph e Lizzie, rispettivamente un lupo e un coccodrillo giganti. I tre animali lasciano una scia di distruzione alle loro spalle, minacciando danni ancora più gravi non appena raggiungeranno Chicago.
Come accade spesso in questo filone (anche di recente: si pensi a Godzilla e Kong: Skull Island), la discrepanza tra la componente umana e quella mostruosa è abissale. Ma stavolta c’è una differenza: Rampage, infatti, è “legittimato” dalla sua fonte originaria, dove l’identificazione con i mostri era totale. Pur cambiando le premesse del videogioco, il film ne traspone lo spirito di fondo, e induce il pubblico a privilegiare di gran lunga le tre creature bestiali rispetto ai patetici comprimari umani, sempre impegnati a risolvere problemi di cui sono gli unici responsabili. Non a caso, l’interesse per le loro vicende tocca il minimo storico: gli intermezzi con Dwayne Johnson e gli altri personaggi non destano alcuna curiosità, soprattutto quando ci spiegano i risvolti personali o pseudo-scientifici della storia. La sceneggiatura – scritta a otto mani da Ryan Engle, Carlton Cuse, Ryan J. Condal e Adam Sztykiel – diventa un po’ macchinosa quando vuole dare forma cinematografica al soggetto dell’arcade, tant’è che la distruzione cittadina è tutta concentrata nel terzo atto. In quel momento, però, Rampage si avvicina di più al videogioco, e dà il meglio di sé in termini di puro entertainment.
George, Ralph e Lizzie sono come bambini che distruggono castelli di sabbia, e quello che trasmettono è il medesimo divertimento naïf, anche quando arrivano a scontrarsi fra loro. Dwayne Johnson – meno ironico del solito – schiera la sua prestanza fisica contro la furia delle tre bestie, ma la vittoria non è una questione di muscoli: il nucleo del film, piuttosto, è la sua bromance con George, all’insegna di un’amicizia virile che supera il confine delle specie. Così facendo, la sorte cinematografica dell’arcade non è molto diversa da quella degli animali infettati col patogeno: da prodotto grezzo ed essenziale, il gioco di Midway Games cresce a dismisura per diventare il classico blockbuster, con le sue scene d’azione collocate al posto giusto, un terzo atto esplosivo e vari segmenti di stampo emotivo-intimista, legati al passato di Kate e al rapporto fra Okoye e il gorilla. Nulla di nuovo, ma nel complesso non ci si annoia. Al di là dell’azione, gli intermezzi cinici movimentano il racconto e bilanciano la sterilità delle vicende umane, retaggio antico e immutabile dei vecchi monster movie: le cattive abitudini non muoiono mai, nemmeno al cinema.
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