Legion, piani di (ir)realtà e rielaborazione degli archetipi nella premiere della stagione 2

Legion, piani di (ir)realtà e rielaborazione degli archetipi nella premiere della stagione 2

Di Lorenzo Pedrazzi

Qualunque serie tv che faccia perdere l’orientamento agli spettatori, se consideriamo la natura stessa del mezzo, cela in sé una componente sperimentale. Il racconto seriale del piccolo schermo è storicamente chiaro, uniforme, tendente a fornire spiegazioni dettagliate che non lascino spazio ad alcuna ambiguità, mentre Legion – che a suo modo è figlio di Twin Peaks – procede nella direzione opposta, scardinando quel sottogenere “supereroistico” a cui appartiene di diritto. Lo abbiamo visto ampiamente nella prima stagione, e l’incipit della seconda non è da meno: Noah Hawley ribadisce che la sua interpretazione dei mutanti Marvel è ben poco convenzionale, poiché gli archetipi dei supereroi – pur presenti – vengono rielaborati alla luce di una narrazione astratta, dove i legami di causa-effetto sono talmente sfumati da richiedere l’intervento attivo del pubblico.

Anche stavolta, insomma, il fruitore è chiamato a ricostruire il percorso di David Haller (Dan Stevens) per colmare le lacune della sua memoria, consapevole della proverbiale inaffidabilità che lo caratterizza. Il disorientamento scaturisce anzitutto da qui: Legion ci costringe ad assumere il punto di vista di un eroe inattendibile, viziato sia da disturbi psichici sia da traumi del passato, e quindi incapace di guidare il racconto su un sentiero lineare. Non a caso, proprio quando sembrava aver trovato un fragile equilibrio, il buon David è stato rapito da una misteriosa sfera volante che lo ha tenuto in ostaggio per un anno intero, alterando la sua percezione del tempo. Ritrovato in un night club dagli uomini della Division 3, egli è convinto che sia trascorso appena un giorno dal suo sequestro, e ricorda solo vaghi frammenti della sua prigionia. David scopre quindi che la situazione è molto cambiata: il gruppo di Summerland ora collabora con la Division 3, governata dall’enigmatico Ammiraglio Fukuyama, un uomo che indossa un cesto di vimini sulla testa ed è sempre accompagnato da un gruppo di donne baffute, suo unico canale di comunicazione. Clark (Hamish Linklater), Ptonomy (Jeremie Harris), Cary (Bill Irwin), Kerry (Amber Midthunder), Melanie (Jean Smart) e Syd (Rachel Keller) lavorano nella sede dell’organizzazione, e gli rivelano che Amahl Farouk alias il Re delle Ombre (Navid Negahban) ha una missione ben precisa: ritrovare il suo corpo originale, con il quale diventerebbe imbattibile. Ora, il parassita psichico sta viaggiando nel corpo di Oliver (Jemaine Clement), la cui mente è intrappolata con quella di Lenny (Aubrey Plaza) in una sorta di “piano astrale”, dove entrambi vivono un’apparente tranquillità fatta di sole e cocktail in piscina. Syd è felice di riaccogliere David tra le sue braccia, ma percepisce qualcosa di strano in lui, e ritiene che le stia nascondendo qualcosa. In effetti, David ha vissuto un’esperienza molto strana durante il suo rapimento: una versione futura di Syd, tracciando disegni luminosi nell’aria, gli ha detto che deve aiutare Farouk a recuperare il suo corpo, ma senza spiegargli perché. Pare che sia stata proprio lei a inviare il globo. Nell’ultima scena, infine, vediamo David che osserva la ragazza mentre dorme, uno sguardo inquietante sul viso.

Il discorso riprende esattamente da dove lo avevamo lasciato: Noah Hawley – qui coadiuvato da Nathaniel Halpern per la sceneggiatura – ripensa il genere supereroistico in termini stranianti, come se l’eccezionalità di questi personaggi e dei loro poteri influenzasse la struttura stessa del racconto, sfumandola e opacizzandola. Il carattere straordinario dei mutanti (insieme alla loro ambiguità morale, molto apprezzata da Hawley) non può tradursi in un prodotto trasparente e lineare, ma deve giocoforza trovare sfogo in una narrazione rarefatta, che priva il pubblico anche dei più banali punti di riferimento. Eppure, l’autore di Fargo parte da una base condivisa, ovvero gli archetipi di cui si parlava all’inizio: abbiamo un eroe (per quanto insolito), un interesse romantico (castrato dall’impossibilità di toccarsi), vari aiutanti (di natura scientifica e istituzionale) e persino un grande antagonista, il Re delle Ombre, che nella seconda stagione pare animato da uno scopo molto “classico”; ciononostante, Hawley chiarisce fin dall’inizio che la situazione potrebbe non essere così semplice, e suggerisce una paradossale alleanza tra il protagonista e la sua nemesi.

Questo rapporto simbiotico è suggellato da una splendida scena musicale, ennesimo gioiello di montaggio visivo e sonoro, dove lo “scontro” si esprime in un dialogo di corpi che non si toccano mai. Hawley rimedia il linguaggio del musical, ma opera una ricollocazione dei suoi tópoi all’interno di un contesto diverso, più beffardo e cerebrale, che mette in dubbio il confine tra sogno e realtà. Non a caso, anche Cary comincia a ballare nel suo laboratorio: i margini che separano il sonno dalla veglia (o l’allucinazione dalla verità) sono sempre più labili.

È proprio nel montaggio che Legion individua il suo mezzo privilegiato. Allontanandosi dal montaggio “invisibile” del cinema hollywoodiano e della televisione convenzionale, Hawley e i suoi brillanti collaboratori lo sfruttano per mettere in relazione diversi piani di (ir)realtà, superando i limiti dell’esperienza sensibile: il montaggio diviene così uno strumento palese, che non cerca di nascondersi dietro una supposta “naturalezza”, ma dichiara apertamente la sua artificiosità, come tecnica e come linguaggio. Esso ci permette di stabilire una relazione con David, entrando e uscendo dalla sua mente, dai suoi ricordi e dai suoi deliri ossessivi. La reiterazione dei gesti e delle parole è spesso la chiave per comprendere le sue visoni, giocando con angolazioni e prospettive variabili che il montaggio (anche sonoro) rende sempre più evidenti, fino a radicarle nella memoria. Tra la messinscena del reale e le sue distorsioni allucinate non c’è alcuna soluzione di continuità: persino la banalità quotidiana, in Legion, è punteggiato da elementi bizzarri, grotteschi e stranianti, come dimostrano la bellissima sala mensa della Division 3 e l’assurdo status quo dell’Ammiraglio Fukuyama.

In effetti, la dissonanza è uno dei cardini espressivi della serie. Traspare soprattutto nella sovrapposizione di maschile e femminile che caratterizza le “ancelle” di Fukuyama, nei cui volti si coagula la poetica della serie: un senso di indefinitezza che mette quasi a disagio, ma al contempo intriga e ammalia. Tale dissonanza si riverbera anche nell’impostazione stessa del racconto, perché quella che dovrebbe essere una storia d’avventura (in conformità al suo retaggio d’appartenenza) tende invece a valorizzare i tempi morti, gli intermezzi, le divagazioni lisergiche di una narrazione ellittica. Ne consegue una certa imprevedibilità: il formato di Legion è estremamente mutevole, e può sfociare nei registri del musical, della commedia indie, del melodramma, della fantascienza, dell’horror e del mistery. Il suo grande pregio è di essere sfuggente, evitando sia le facili classificazioni “di genere” sia le reazioni apatiche degli spettatori, al contrario di altri cinecomic.

La serie di Noah Hawley richiede una visione attiva, poiché dà valore all’intelligenza del suo pubblico: un pregio non da poco, se consideriamo l’affollamento di trasposizioni fumettistiche sul piccolo schermo.

Voto: ★★★★ 1/2

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