Avengers: Infinity War – Una recensione che usa il potere delle Gemme dell’Infinito

Avengers: Infinity War – Una recensione che usa il potere delle Gemme dell’Infinito

Di Roberto Recchioni

Prima di parlare del film, prima di parlare di supertizi, prima di parlare di cinema, bisogna fare una doverosa premessa: dieci anni fa arrivò, nello scetticismo generale, il primo film di Iron Man, diretto da Jon Favreau, un regista-attore noto, perlopiù, per le sue commedie, e interpretato da una star in declino, Robert Downey Jr.
Anche i più ottimisti non potevano prevedere cosa questo avrebbe significato non solo per i Marvel Studios, che con questa pellicola si affacciavano, per la prima volta come produttori principali, senza intermediari, nel dorato mondo di Hollywood. Come è andato Iron Man lo sappiamo e sappiamo che da quella pietra angolare non solo l’universo immaginifico della Casa delle Idee ha preso, finalmente, il volo anche sul grande schermo, ma è nato anche un nuovo modo di interpretare il cinema. Può piacere o non piacere il lavoro fatto dai Marvel Studio fino a questo punto, ma non si può non riconoscere che Kevin Feige non solo è stato un illuminato visionario, ma che è pure riuscito a realizzare e portare al successo la sua visione, facendosi beffa di tutti quelli, fino a quel punto, che gli dicevano che non si potesse fare.

Perché fino ad Iron Man, Hollywood riteneva che i fumetti di supereroi non potessero funzionare se non attraverso pesanti tradimenti e rivoluzioni.
 Perché fino ad Iron Man, l’idea di una serie di film con protagonisti diversi, ma tutti appartenenti allo stesso franchise e collegati da una stretta continuity, sembrava una pura follia che il pubblico generalista non avrebbe capito o seguito.
Perché fino ad Iron Man, i supertizi erano una roba da nerd sfigati e per farli arrivare al grande pubblico andavano interpretati, ripuliti dei loro costumi colorati e della loro patina di onesto divertimento, resi seri, resi cupi, resi realistici, maturi. Solo Sam Raimi, con Spider-Man, aveva provato a fare qualcosa che andasse in una direzione più rispettosa e fedele e i Marvel Studios avevano fatto tesoro di quell’approccio.

Tutte convinzioni spazzate via dal lavoro di Feige e dei suoi collaboratori che, nel corso di dieci anni in cui hanno realizzato diciannove film (saranno venti alla fine del 2018), sono stati capaci di dimostrare che i supereroi al cinema possono funzionare così come sono stati concepiti sulla carta stampata e che l’intuizione di Stan Lee di dare vita a un universo particolarmente coeso e strettamente interconnesso (molto di più di quello a fumetti della DC, per dire) è brillante sul grande schermo così come lo è sulle pagine dei fumetti.
Ed è per questo che quel primo Iron Man non ha rappresentato solo la nascita di una nuova mitologia hollywoodiana ma la genesi di un nuovo genere, di una nuova ottica produttiva e di una nuova grammatica cinematografica.
Perché i film della Casa delle Idee non sono proprio “film” per come i film sono stati sempre concepiti e percepiti fino all’arrivo dei Marvel Studios.

Non lo sono sotto il profilo della scrittura, dove i vari sceneggiatori coinvolti sono “costretti” a scrivere storie fortemente dipendenti dai capitoli precedenti e successivi e che, per questo, devono reinventare (e per molti versi, tradire e violentare) la struttura in tre atti, cercando di mantenerne una autonomia drammatica e narrativa di pura facciata, sapendo bene che, in realtà, la loro opera potrà essere pienamente apprezzata e fruita solo se inserita nel quadro generale di tutte le pellicole realizzate.

Non lo sono sotto il profilo produttivo, con budget sempre misurati e attenti alla spesa complessiva, con cast caratterizzati da stelle appannate o di seconda grandezza (da poter rilanciare) o da facce nuove e di belle speranza (da poter affermare), registi solidi e senza tanti grilli per la testa, pronti a seguire le direttive della casa madre senza fare costosi capricci, effetti speciali adeguati ma mai al top.
Quando il primo Iron Man uscì nella sale, presentandosi come un blockbuster da “soli” 140 milioni di dollari, non furono pochi quelli che sollevarono un sopracciglio ritenendo quel budget troppo modesto per un film con grandi ambizioni (ricordiamo che, in quegli anni, una produzione da 300 milioni di dollari come il secondo capitolo della saga dei Pirati dei Caraibi, era quasi la normalità).
Oggi il metodo produttivo Marvel è copiato da tutti e rappresenta, per le major, la maniera virtuosa (e più economicamente efficace) di realizzare opere-prodotto per il grande pubblico.


E non lo sono nemmeno per il linguaggio cinematografico che, a fronte di pochissime eccezioni, si è dimostrato sempre molto coerente (i più cattivi direbbero “omologato” o “appiattito”) indipendentemente dagli uomini che stavano dietro al word processor o alla macchina da presa. Una fotografia standardizzata, molto solare, molto colorata, un tono narrativo sempre a mezza via tra la commedia e l’action e un “occhio cinematografico” mai troppo ampio (televisivo, direbbero sempre le male lingue) per non alzare i costi e non mettere in luce i limiti produttivi.

La critica più severa ha definito, nel corso degli anni, i film Marvel come meri prodotti standardizzati, priva di qualsiasi autorialità, una lunga serie televisiva (nemmeno di quelle raffinate) portata in sala.
E in parte è sicuramente vero, pur con le dovute eccezioni (penso a Iron Man 3, ai due capitoli dei Guardiani della Galassia, al secondo capitolo di Captain America, al terzo capitolo di Thor). Come è vero che tutti quei registi non pronti a farsi assimilare dal “metodo” di Feige sono stati allontanati (da Joss Whedon, fuggito senza completare la trilogia degli Avengers, a Wright, cacciato ancora prima di poter mostrare cosa sapeva fare). Ma non si può non ammettere che, forse, il pugno di ferro degli MS (Marvel Studios d’ora in poi) era quello che serviva per riuscire ad arrivare alla meta prefissata senza perdere pezzi per strada. 
E quella meta aveva un nome: Avengers: Infinity War.

Prima di entrare nel dettaglio del film, sgomberiamo il campo da qualsiasi fraintendimento:
Avengers: Infinity War è un bel film?
No. Se intendiamo il concetto di “film” ancora alla vecchia maniera e pretendiamo che ogni opera abbia una sua autonomia e sia capace di vivere da sola. 
Se, invece, accettiamo il fatto che quelli Marvel sono un modo diverso di intendere il medium cinematografico e che questo modo ha una sua piena dignità e merita rispetto, allora l’ultima fatica di Anthony e Joe Russo è un miracolo assoluto, una vetta, una cattedrale, un capolavoro. L’epica e trionfante conclusione di un viaggio durato dieci anni e che ha comportato scelte difficili, comportamenti duri, fatica, lacrime e sangue, ma che ha cambiato, probabilmente per sempre, il volto del cinema americano.
Una meraviglia che non solo celebra le creazioni di Stan Lee (e di Joe Sinnott, Jack Kirby, Steve Ditko, Don Heck, John Buscema e tanti, tanti altri), ma che premia e porta in trionfo tutti quelli che quelle creazioni le hanno amate e le amano ancora: noi.
Che un tempo eravamo Marvel Zombie, o che magari lo siamo ancora. O che lo siamo diventati, proprio grazie ai film.
In linea teorica, non dovreste sapere nient’altro, ma precipitarvi al cinema e basta.
 Ma visto che siamo qui, e visto che il film lo avrete probabilmente già visto, tanto vale andare a esaminarlo nel dettaglio.
Per farlo, useremo il potere delle Gemme dell’Infinito, cliccate su quella che preferite, nell’ordine che preferite, per leggere un approfondimento sui vari aspetti della pellicola.
NON CI SONO SPOILER.

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GEMMA DELLA MENTE

GEMMA DELL’ANIMA

GEMMA DEL POTERE

GEMMA DELLA REALTÀ

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