Rifondare un mito significa ripartire dalle basi, e questo vale anche per un’icona recente come Lara Croft. Quando Eidos Interactive fu acquisita da Square Enix, la compagnia giapponese decise di rilanciare l’archeologa con un reboot della sua saga videoludica, ripulendola dalle scorie del passato e tornando alle origini dell’eroina: il risultato fu un nuovo inizio per Lara, rinnovata in termini non soltanto estetici e narrativi, ma anche culturali. Se la prima Lara Croft era indubbiamente l’espressione di una fantasia maschile, concepita fisicamente con sguardo lubrico e un po’ goliardico, la nuova incarnazione dell’avventuriera diventa improvvisamente una ragazza “normale”, senza i parossismi da superdonna che caratterizzavano l’originale. Non è difficile rintracciare questa evoluzione anche negli adattamenti cinematografici: la Lara Croft di Angelina Jolie era un’eroina statuaria e invincibile, sempre un passo avanti rispetto ai suoi avversari, sprezzante e sicura di sé; mentre la versione di Alicia Vikander è una donna inesperta, dubbiosa e fallibile, che deve ancora “farsi i muscoli” nelle sfide della vita.
Tale processo di umanizzazione è il cuore di Tomb Raider, come si evince fin dalla prima sequenza: Lara si batte in una palestra con una sparring partner che la supera facilmente in bravura, costringendola ad arrendersi. È una specie di dichiarazione programmatica, quella della sceneggiatrice Geneva Robertson-Dworet: non siamo di fronte all’avventuriera implacabile dei primi capitoli, bensì a una ragazza comune che perde sul ring e non ha soldi per mantenersi. Ovviamente è solo un’apparenza, poiché Lara è l’ereditiera della famiglia Croft, ma ha deciso di non reclamare la sua eredità finché non avrà risolto l’enigma della scomparsa del padre, Lord Richard Croft (Dominic West). Il tema del retaggio familiare, già presente nel film con Angelina Jolie, ritorna in questo reboot nelle vesti di un lutto mai elaborato, che guida e conclude il percorso educativo di Lara. In effetti, Tomb Raider rilegge le origini della protagonista attraverso un modello fondamentale: il celebre “viaggio dell’eroe”, archetipo narrativo che parte da uno status d’incertezza – spesso frutto dell’assenza di riferimenti genitoriali – per giungere infine alla piena coscienza di sé. Quando scopre che Richard stava indagando sulla tomba di una leggendaria regina Yamatai, Lara decide di mettersi in viaggio per seguire gli stessi indizi, e naufraga su un’isola giapponese dove il crudele Mathias Vogel (Walton Goggins) sta cercando il medesimo sepolcro. Alle spalle di quest’ultimo c’è Trinity, antica organizzazione paramilitare che vuole governare le sorti dell’umanità con mezzi sovrannaturali.
Si riparte dalle basi, insomma. La trama di Tomb Raider è estremamente lineare, strutturata secondo uno schema riconoscibile (c’è l’antagonista, il mentore, l’aiutante…) e proiettata verso l’inevitabile maturazione di Lara nell’archeologa che tutti conosciamo, treccia e pistole incluse. Il regista Roar Uthaug non cerca strade alternative, ma svolge un compito dignitoso nel confezionare le scene d’azione, particolarmente suggestive quando mettono in scena le fughe rocambolesche di Lara fra cascate e relitti aeronautici. È qui che inizia la metamorfosi della protagonista, eroina dal corpo di gomma che esce quasi indenne dalle situazioni più pericolose, sfruttando l’ambiente e gli oggetti disponibili. Il copione, non a caso, integra le meccaniche del videogioco nel flusso del racconto, instaurando un dialogo diretto fra il cinema e l’intrattenimento elettronico: le scene di fuga ricordano inevitabilmente i quick time event dei videogame, mentre l’utilizzo di armi, manufatti o altri oggetti “speciali” (emblematico l’enigma nella sala delle maschere) servono a sbloccare determinate situazioni e procedere fino al “livello” successivo. La contaminazione non è raffinata o post-moderna come in altri casi, ma di certo ha senso nelle logiche di questo adattamento.
Ne consegue un onesto entertainment, a tratti molto ingenuo, che quantomeno non s’illude di servire obiettivi più prestigiosi. Anche perché il film comincia a claudicare non appena mette piede fuori dal seminato: i dialoghi sono debolissimi, la “mitologia” della Trinità e della regina Himiko vive solo di timidi accenni, mentre il rapporto padre-figlia è un mero espediente per giustificare la crescita di Lara, senza alcun coinvolgimento emotivo; le forzature logiche, inoltre, fanno quasi sorridere per il loro candore. Alicia Vikander ha però il merito di offrire un volto credibile all’eroina, bilanciando le istanze della fragilità umana e il superomismo della grande avventuriera, sempre più ingombrante con il procedere del film. Il ritratto che ne deriva è quello di una giovane donna capace di determinare la propria sorte, sfruttando l’avventura come un’esperienza formativa: al termine del percorso, infatti, il cerchio finalmente si chiude, e la sua figura coincide con l’icona popolare che tutti conosciamo. Tomb Raider è la storia delle sue genesi, dall’anonimato al successo mondiale.
Il cliffhanger di marca televisiva rimanda però alla narrazione seriale, per un film che ambisce a diventare franchise. Non sappiamo se funzionerà, ma potrebbe rivelarsi un buon test per capire se Lara Croft abbia ancora un ruolo importante nell’immaginario collettivo, al di là del processo di svecchiamento che caratterizza questo reboot. Staremo a vedere.
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