THE DOC(MANHATTAN) IS IN – Ghost Wars. “E chi chiamerai?” NES-SU-NO!

THE DOC(MANHATTAN) IS IN – Ghost Wars. “E chi chiamerai?” NES-SU-NO!

Di DocManhattan

Vincent D’Onofrio è un prete con la coda lunga stile Fiorello al Karaoke, 1992 circa. Inizia male, Ghost Wars, e poi fa di tutto per non riprendersi. Gettando addosso all’incauto spettatore tonnellate di stereotipi da horror movie di venti o trent’anni fa, nella sua storia di fantasmi di paese arrabbiati che fanno cose, influenzano la mente, vedono gente, giusto perché in TV non ci sta la De Filippi. Perché le guerre ectoplasmatiche del titolo, o quanto meno la guerra ai fantasmi, singolare, è quella che scoppia tra i buzzurri abitanti di un buco d’inferno sperduto su un’isola dell’Alaska e gli ex compaesani passati già a miglior vita e ansiosi di tirarsi dietro nel club dell’aldilà tutti gli altri. Sembra scemo? L’ho già detto che poi peggiora?

“Katia Noventa ci raggiunge tra un attimo”

Port Moore è una cittadina dell’estremo nord del continente americano infestata da presenze paranormali. L’unico che sembra a) capirci qualcosa e in grado b) di fermare gli spettri e c) di diventare intimo di quelli buoni, come la sua amica in stile Casper, è Roman Mercer (l’Avan Jogia di Caprica e Twisted), figlio di una sorta di maga/strega locale e perciò bullizzato da tutti. Ma presto Port Moore scopre di aver bisogno di Roman, che vede la gente morta ma non Bruce Willis, perché i residenti cominciano a cadere come mosche, vittime degli scherzoni dei fantasmi. Gli spiriti, infatti, sono in grado non solo di farti venire un coccolone spuntando all’improvviso, come ogni bravo spettro malintenzionato e rancoroso che si rispetti, ma di entrarti nella testa e farti vedere quello che vogliono. Lo sceriffo, lo stesso prete Palla di Lardo/Kingpin/Fiorello, il sindaco… uno alla volta, tutti perdono il controllo, spinti dagli inganni delle presenze. E? E niente, si va avanti fino al duello finale, in cui Roman e i suoi alleati tirano fuori una strategia d’urto per vincere la guerra. Oltre a una specie di fucile protonico con cui sparare agli ectoplasmi. No, davvero. Tanto ce n’è uno solo, non c’è il pericolo di incrociare i flussi, sai che gli frega.

Prodotta da SyFy e lunga 13 puntate di una 40 di minuti l’una, Ghost Wars è sbarcata da qualche giorno su Netflix. Il mood di fondo è quello già visto e rivisto della cittadina fuori dal mondo su cui si abbatte la SFIGA APOCALITTICA® e tutti iniziano ad agire in modo irrazionale, fregandosene delle leggi e del buon senso. Una di quelle serie in cui devi spegnere subito il “Ma perché non fanno questo, o quest’altro?”, dettato dalla sfera più precisina del tuo cervello, altrimenti impazzisci. In cui non devi farti domande, per nessuna ragione, perché niente ha davvero senso. Il punto è che le serie con questo tipo di setting, che siano dei thriller o degli horror come in questo caso, puntano a costruire un po’ alla volta quel che il convento passa come mistero da risolvere. Se giri un horror da un’ora e mezza, puoi e devi spararti subito tutte le cartucce, ok. Ma se quell’horror lo spalmi su tredici puntate da tre quarti d’ora l’uno, dovresti invece svelare le carte un po’ alla volta, per giocare a fare il nipotino di Stephen King e tenere viva l’attenzione dello spettatore. Più che altro, per tenerlo sveglio. È la dura legge del binge watching all’una di notte, baby.

Ghost Wars, però, sceglie un approccio completamente diverso. Ti butta subito in faccia la torta della cittadina infestata dai fantasmi e poi cerca di arricchire il quadro, dedicando interi episodi all’approfondimento della storia dei singoli personaggi. Il contrabbandiere dagli occhi buoni di Kim Coates (Tig di Sons of Anarchy); la scienziata pescata da Battlestar Galactica (Kandyse McClure); le macchinazioni della misteriosa compagnia per cui questa lavora, la solita simil-Umbrella Corporation dedita ad esperimenti perigliosi in un qualche bosco yankee lontano da tutto e tutti, che causa disastri naturali e sembra un bar alla moda, con i banconi luminosi in stile pubblicità del Bacardi. Storie di tutti i giorni, per dirlo alla Fogli. Storie di telefilm pucciati nel mistero, sulla scia di Twin Peaks o The Leftovers, ma senza averci un’oncia di quel carisma. Con il risultato che si gira al largo da quella storia già sotto il naso per otto episodi, prima di darsi una mossa e spingere verso il finale protonico. In Ghost Wars si muore in modo scemo, si urlano cose sceme e si prova a spaventare di tanto il pubblico con insetti e granchi che escono da una bocca o si infilano da qualche altra parte. E che non fanno minimamente la stessa paura della computer graphic da fiction di Canale 5 impiegata per gli incidenti: quelle sì scene da incubo. Violini violentati, note basse di pianoforte: sveglia, dormiglioni! Vi si scassa il tablet!

Qualche spunto buono (pochissimi), idee riciclate da dove capita (Under the Dome, per dirne una), tanti fulgidi esempi di recitazione pessima, a partire da uno svogliato protagonista (che nel doppiaggio italiano fatto in fretta e furia sembra ancora più scocciato). In generale, valori di produzione molto bassi: luci e regia da B movie, al punto che non fosse tutto così artigianalmente pezzente, sembrerebbe voluto, visto che Ghost Wars è un B movie lungo sei volte tanto. L’unico modo per vederlo, si diceva, è non porsi domande e prenderla sul ridere. Va’ che morte buffa, quell’idiota. Va’ quello com’è deficiente. Del resto, è esattamente l’unica chiave di lettura ammissibile per decine di horror a cui Ghost Wars, con i suoi bicchieri che si riempiono di sangue, i cadaveri che si trasformano in cetacei e la spiegazione finale sul nome di quel posto, attinge senza vergogna. Per tutti i fan dell’horror convinti che una risata seppellirà pure il loro tablet col vetro frantumato da una caduta da sonno. E per i fan di Meat Loaf, ansiosi di vedere il cantante che ha inciso i Bat Out of Hell nei panni di un vecchio scorreggione rancoroso di periferia.

“Mhhnf!”

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