Schiavi di New York #3 – Mo’ Better Blues

Schiavi di New York #3 – Mo’ Better Blues

Di Adriano Ercolani

Per comprendere a fondo il valore del quarto lungometraggio diretto da Spike Lee bisogna vederlo come risposta mirata al suo precedente capolavoro Fa’ la cosa giusta (Do the Right Thing, 1989). Già nei folgoranti titoli di testa Mo’ Better Blues (id., 1990) vuole infatti prendere le distanze, porsi come superamento delle coordinate estetiche dell’altro. Lo stile sincopato e rabbioso di quel film, vero e proprio terremoto all’interno dell’establishment dello spettacolo newyorkese (e non solo), aveva lanciato il nome dell’autore di Brooklyn come nuovo “arrabbiato”. Eppure tale fama andava già stretta a un cineasta che fin dall’inizio della propria carriera si era dimostrato attentissimo a non essere etichettato dentro alcuno stereotipo. Il suo lungometraggio successivo avrebbe dovuto necessariamente rappresentare qualcosa di diverso, addirittura antitetico. Qualcosa che affermasse Spike Lee come regista a tutto tondo, non soltanto quello della protesta razziale dei quartieri poveri di New York. Ecco quindi i movimenti di macchina morbidi, eleganti, ad accarezzare i preziosi strumenti musicali che saranno parte fondamentale di Mo’ Better Blues; e con essi colori adoperati nella loro totale forza espressiva: giallo, rosso, viola o blu si alternano non solo sulla pelle di Denzel Washington e delle sue amanti Cynda Williams e Joie Lee, ma anche su trombe, sassofoni e altri strumenti musicali. Corpi caldi e freddo metallo: l’anima di Mo’ Better Blues è tutta contenuta in questa dicotomia.

Il primo fraintendimento a cui Mo’ Better Blues andò incontro, soprattutto quando venne presentato al Festival di Venezia, fu che non si trattava di un film “politico”. Lee, ben cosciente che l’accostamento a Fa’ la cosa giusta sarebbe stato inevitabile, scelse in questo caso di celare le dietro le spoglie del melodramma le sue idee sui problemi che affliggevano i neri newyorkesi. La fine degli anni ’80 fu un momento di profonda divisione all’interno della comunità afroamericana, dovuta soprattutto alla figura controversa di Louis Farrakan, leader della Nation of Islam. La sua politica isolazionista minò le fondamenta di quella tanto auspicata unione che avrebbe rafforzato invece che dividere. Il microcosmo della band di musicisti al centro di Mo’ Better Blues è infatti una metafora impietosa della comunità nera newyorkese del periodo, e Lee usa la forza del suo cinema per rappresentarne le contraddizioni: già dalla prima scena sono ancora i colori a scandire lo stato dei personaggi, le differenze tra loro: il grigio elegante e classico dell’abito di Bleek contrasta con il viola e rosso di quello del rivale Shadow Henderson (Wesley Snipes). Anche lo stile di musica è diverso: suadente il primo, istrionico il secondo. E appena finita la performance sul palco ecco che subito affiorano gelosie, incomprensioni e avidità. Spike Lee chiarisce immediatamente le cose: non basta lo stesso colore della pelle per essere “fratelli”. Addirittura mette in scena a modo suo l’antisemitismo che a quel tempo iniziava a serpeggiare trai neri: i due fratelli ebrei Moe e Nicholas Flatbush sono come segregati nel loro ufficio, come adifendersi dal pubblico di predominanza afroamericana del locale che posseggono. Per vivere loro si affidano soltanto ai numeri, non alle persone, perché queste tradiscono sempre. Sono i personaggi più vicini alla parodia che Mo’ Better Blues possiede, e di certo non può essere un caso…

La prima collaborazione con Spike Lee ha in qualche modo definito la carriera di Denzel Washington, in particolar modo nella sua straordinaria capacità di caratterizzare ruoli ambivalenti. Il suo Bleek Gillam è un personaggio radicalmente ambiguo, affascinante e respingente allo stesso tempo. Il celeberrimo movimento circolare della macchina da presa in cui protagonista “vede” la sua musica – diventato subito marchio di fabbrica dello stile di Lee – ci racconta in maniera viscerale di un Bleek che vive la sua arte come totale ossessione. E’ un maniaco del controllo per Clark la “selvaggia”, è un cane rabbioso per Indigo la saggia. Spike Lee non ha mai avuto paura di mettere in scena il difficile rapporto uomo/donna, minato prima di tutto dallo sciovinismo maschile: Bleek Gilliam ne è l’esempio più feroce: “I know what I want: my music. Everything else is secondary.” Quando arriva il momento del confronto con una delle due partner, qualunque essa sia, ecco che lui si estranea, si allontana verso la sua tromba. Un atteggiamento maschilista e purtroppo assolutamente contemporaneo, che testimonia lo straniamento emotivo che troppo spesso l’uomo contemporaneo sviluppa. Anche il sesso è meno appagante delle note, e quando Clark lo morde sulle labbra Bleek quasi perde la testa, perché lui si guadagna da vivere con le sue labbra. Il senso pratico dell’essere artista è lo specchio attraverso il quale Spike Lee si rivede in Bleek Gilliam. Tutto sommato però il vero pensiero del cineasta lo possiamo trovare nel personaggio di Shadow, colui che cerca una mediazione tra il pubblico e l’autore, che non intende isolarsi credendosi superiore a chi fruisce la sua musica. Il momento forse più apertamente critico di Lee nei confronti di Bleek arriva con l’amarissima performance volta a schernire le canzoni d’amore, che il musicista interpreta vestito come un pagliaccio. Un’esibizione che rispecchia prima di tutto il vuoto emotivo e la presunzione del protagonista. Alla fine il discorso che Shadow sciorina a Clark per conquistarla, per quanto opportunistico, risulta più vero e partecipe di tutte le parole “oneste” del suo rivale. “Alla fine tutto ciò che meriti è rispetto. Se non ti rispetta, non hai bisogno di lui.” Altro esempio rappresentativo dello sciovinismo di Bleek è il rapporto con l’amico e manager Giant, fondato su un maschilismo depositario di valori artificiosi, gli stessi che minano la credibilità del maschio afroamericano. Sotto questo punto di vista Spike Lee è coraggioso nell’accollarsi il ruolo di Giant, in quanto si espone di persona nel mettere in scena le debolezze del suo gruppo di appartenenza.

Poiché incentrato sulla presa di coscienza del suo protagonista, prima personale ma anche metaforicamente “sociale”, Mo’ Better Blues è invece un film fortemente politico. Ciò che mette in scena è il dovere dell’individuo di inserirsi in un contesto socio-economico che gli permetta di prosperare come singolo ma soprattutto come membro di una comunità organica. L’isolamento porta alla sconfitta: lo scagnozzo interpretato da Samuel L. Jackson spacca le labbra di Bleek con la sua stessa tromba. Dopo aver continuato a isolarsi nella sua vena autodistruttiva il musicista tenta nuovamente di salire sul palco. E fallisce. Oppure ha paura di tornare indietro? Non può più suonare, e forse è una liberazione. La pioggia che lo bagna quando si allontana definitivamente dal locale è molto più che metaforica. La tromba rimarrà con l’uomo/simbolo di una vita che non gli appartiene più, quel Giant che gli urla “Non la venderò!”. Ma sappiamo già che sta mentendo, prima di tutto a sé stesso…

Alla fine Bleek confessa a Indigo: “I want you to save my life.” Perché è tutto quello che gli è rimasto. Adesso è lui a implorare. E lascia che lei gli tocchi le labbra…

La fotografia sinuosa e densa come non mai di Ernest Dickerson dipinge Mo’ Better Blues dentro una cornice di colori capaci di ipnotizzare l’occhio dello spettatore. Basta ammirare l’ultima drammatica performance di Bleek, montata in alternanza con il pestaggio di Giant: il rosso sanguigno che invade il palco anticipa, sottolinea la violenza del momento. E questo è solo uno dei vari momenti in cui il film di Spike Lee letteralmente stordisce lo spettatore con la sua potenza espressiva. Perché se Fa’ la cosa giusta aveva scosso con la forza del messaggio, Mo’ Better Blues riesce invece a penetrare anche con quella delle immagini.

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