Ore 15:17 – Attacco al treno, la recensione del nuovo film di Clint Eastwood

Ore 15:17 – Attacco al treno, la recensione del nuovo film di Clint Eastwood

Di Adriano Ercolani

Il cinema di Clint Eastwood sembra aver definitivamente cambiato pelle. Il precedente, riuscitissimo Sully ci aveva infatti presentato una nuova idea di messa in scena, se possibile ancora più scarna e dritta al punto di quella sviluppata dal cineasta negli ultimi trent’anni. A livello di lavoro sulle luci ad esempio, in capolavori come Mystic RiverMillion Dollar Baby o Changeling adoperate in maniera fortemente espressiva, a partire dal film con Tom Hanks si assiste a un’illuminazione totalmente realista, volta a rafforzare l’idea di verità di un lungometraggio basato su un’inchiesta e sulle ripercussioni psicologiche che essa porta al protagonista.

Il nuovo Ore 15:17 – Attacco al treno è improntato secondo le stesse direttive del lavoro precedente di Eastwood ma non ne possiede la stessa efficacia, né la coerenza estetica. Il problema maggiore sta nel fatto che l’evento principale del nuovo film, lo sventato attacco terroristico sul treno da parte dei tre ragazzi americani, si svolge nel giro di pochissimi secondi e per tutto il resto del film Eastwood tenta di raccontarci quello che ha portato questi giovani al loro atto eroico senza avere però abbastanza materiale narrativo per rendere il film compatto e coerente. Eppure Ore 15:17 – Attacco al treno sembra essere un film fortemente sentito dal cineasta, e in alcuni momenti lo si percepisce. Molti dei valori che i tre ragazzi e le loro madri posseggono sono quelli che il regista condivide da decenni, anche nei suoi film migliori: il legame di fratellanza e onore che lega i personaggi, la loro volontà di eccellere nonostante gli sforzi spesso siano castrati da un sistema castrante e svogliato – la critica alle strutture scolastiche ormai obsolete è ad esempio piuttosto evidente nei flashback sull’infanzia dei protagonisti – il diritto all’autodifesa che si accompagna alla volontà di servire e aiutare il prossimo, soprattutto in situazioni di pericolo estremo. Un altro problema del film è che l’idea di messa in scena così stringata, quasi scarna, non aiuta a “mascherare” la retorica e la voglia non troppo velatamente propagandistica del discorso di Eastwood e dei suoi protagonisti. In più di un’occasione si ha la sensazione che la volontà dell’autore di andare dritto al sodo e girare il film con mezzi e tempi ristretti lo abbia infine costretto a delle scelte estetiche in questo caso troppo limitate.

La sceneggiatura di Dorothy Blyskal, tratta dal libro scritto degli stessi tre eroi che nell’adattamento cinematografico interpretano loro stessi, non propone uno sviluppo psicologico ed emozionale dei personaggi che li porti coerentemente a compiere il gesto eroico, il quale tutto sommato alla fine rimane più sporadico che realmente frutto degli ideali dei ragazzi. Il momento migliore del film, quello in cui il cinema di Eastwood torna a essere intenso e potente, è la scena cruciale, quella della colluttazione contro Ayoub El-Khazzani tra i sedili del vagone ferroviario. Una sequenza tesissima nella sua semplicità, in cui la messa in scena torna a inchiodare lo spettatore alla poltrona.

Se Clint Eastwood ha veramente deciso di realizzare il suo cinema futuro lavorando in economia produttiva e soprattutto estetica, dovrà trovare sceneggiature in grado di sviluppare storie e caratteri più forti di quelli visti in The 3:17 to Paris (titolo originale). Altrimenti rischia di perdere il filo del suo discorso, e far arrivare al pubblico opere di presa emotiva debole e di difficile interpretazione nei messaggi che contengono. Alla prossima allora grande Clint!

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