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Mute, un barlume di purezza in questo mondo infame

Pubblicato il 26 febbraio 2018 di Lorenzo Pedrazzi

La fantascienza umanista di Duncan Jones non accetta compromessi. Moon e Source Code ne sono la dimostrazione lampante, con il loro fiero intimismo che rifiuta la tirannia dello spettacolo: l’uomo e i suoi affetti – più che gli effetti – divengono il nucleo di una narrazione centripeta, in grado di risucchiarci sempre più a fondo nell’animo e nel dramma dei protagonisti. Così facendo, il regista inglese si è imposto come uno dei maggiori esponenti della soft science fiction (almeno sul grande schermo), e Mute merita di essere considerato all’interno di un percorso che, escludendo l’inopportuna deviazione di Warcraft, si mantiene rigorosamente fedele alla linea.

Jones ci lavorava da anni, e Netflix gli ha offerto l’opportunità di produrre il film con tutta la libertà di cui aveva bisogno. Un’arma a doppio taglio, senza dubbio: Mute necessitava di maggior controllo in fase di scrittura, dove l’accumulo degli spunti narrativi rischia spesso la saturazione, eppure Jones ci regala un’opera sincera e viscerale, le cui clamorose imperfezioni scaturiscono direttamente dal cuore del cineasta. Alexander Skarsgård interpreta Leo, un barista Amish che perde la voce da bambino, quando le pale di un motoscafo gli recidono la trachea. Sua madre rifiuta l’operazione perché contraria al proprio credo, e Leo cresce muto. Trent’anni dopo, lo ritroviamo nella Berlino del futuro: serve al bancone di un locale notturno, intaglia il legno nel tempo libero e ama una collega, Naadirah (Seyneb Saleh), che lo ricambia. Lei però nasconde un segreto, e sparisce all’improvviso dopo una notte di passione. Nella sua scomparsa sono coinvolti due chirurghi americani, Cactus Bill (Paul Rudd) e Duck (Justin Theroux), implicati in un giro di prostituzione e negli affari della criminalità russa. Così, Leo si improvvisa investigatore e parte alla ricerca della sua amata.

Il valore di Mute è rintracciabile proprio nello sguardo del suo eroe silenzioso, gigante gentile che si aggira spaesato in un futuro incomprensibile, soprattutto per chi non ha la parola ed è stato cresciuto dalla cultura tecnofobica degli Amish. Se in Moon e Source Code gli snodi fantascientifici giustificavano l’esistenza stessa del conflitto, in questo caso ne rappresentano invece lo sfondo, utile per amplificare il dramma nel contrasto fra la metropoli tedesca (debitrice di Blade Runner, ma con un’atmosfera più ordinaria) e l’alienazione di Leo. Utilizzando pochi tratti, Duncan Jones riesce a trasmettere l’esigenza della sua storia d’amore con Naadirah, evocando una tenerezza che nasce proprio dal silenzio, dalla comunicazione vocalmente unidirezionale tra i due amanti. Il cineasta attinge al retaggio del noir e lo rielabora nella sua sensibilità maschile, recuperando la concezione del personaggio femminile come emblema di salvezza dalla solitudine, ma anche come figura inquieta e sfuggente che stride con la tranquillità imperturbabile del protagonista.

Certo, Jones non ha il senso della misura: eccede in deviazioni e falsi finali, complica l’intreccio e inanella troppi personaggi (ma non è una caratteristica tipica di molte detective story, da Il grande sonno a Vizio di forma?). Il punto, però, è che Mute non tradisce mai la sua natura, nemmeno quando inciampa e rischia di cadere. Resta sempre un film puro, devoto alla propria causa. Se ne frega del cinismo post-moderno, ignora il sarcasmo e la retorica anti-sentimentalista, ma culla i suoi personaggi in un abbraccio affettuoso che ha la stessa dolcezza di Leo. Jones, peraltro, è abilissimo nell’impiegare la metonimia per strutturare la sceneggiatura e le sue svolte narrative, introducendo dettagli solo apparentemente insignificanti che si rivelano fondamentali per la risoluzione della trama: in tal modo, Mute si rivela progressivamente per quello che è, ovvero un film sulla genitorialità e sui sacrifici che essa comporta.

La dedica finale chiude il cerchio, a coronamento di un’opera sì imperfetta, talvolta balbettante, ma disposta a risalire la corrente dell’indifferenza per scoprirsi calorosa, onesta, orgogliosamente emotiva. Pura, in altre parole.

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