ScreenWEEK Originals Memento, Mementote!

Memento, Mementote! – Santa Mira

Pubblicato il 08 febbraio 2018 di Marco Nucci

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Mentre il mondo stava finendo, io guardavo un film. Nel film, il mondo stava finendo.
Nel ricordo ho quindici anni, sette mesi e sei giorni. Riesco a essere preciso in proposito, visto che so la data. Frequento il liceo scientifico, ma in matematica faccio schifo e quindi sono una specie di clandestino. Tra qualche giorno ricomincia la scuola, il cielo è di cemento.
Sono giorni vuoti. L’estate è finita, ma l’autunno non è iniziato. Questa mancanza di tempismo si chiama settembre. Ho pranzato, ho preso il caffè, ho fumato una sigaretta di nascosto dai miei. E adesso? Osservo il cielo di cemento dalla finestra del salotto, poi controllo il Nokia 3210: nessun SMS. Oggi i miei amici giocano a calcetto: io non ci vado mai, il calcetto mi annoia, e comunque faccio schifo e finisco sempre in porta.
Non ho scelta, guarderò un film.

La scelta ricade su un classico, L’invasione degli ultracorpi. L’ho visto duemila volte, una in più non potrà far male.
Il film di Don Siegel (The invasion of the body snatchers, 1955) è una delle mie visioni preferite. Lo considero una specie di Christmas Special di The Twilight Zone: anche qui, come nella serie tv creata da Rod Serling, la paura per l’invasione comunista che dominava gli Stati Uniti dell’epoca si fa metafora centrale di un racconto di fantascienza, ma tutto è scritto e girato con maggiore consapevolezza. Il miglior B movie della storia del cinema.
L’attore protagonista è Kevin McCarthy, un tizio con la faccia strappata e lo sguardo da matto. Quando le produzioni non avevano abbastanza soldi per ingaggiare Jimmy Stewart, chiamavano Ray Milland. Quando non c’era denaro neanche per Ray Milland, poteva capitare di assoldare Kevin McCarthy. La riserva di una riserva, che qui dalla tribuna si ritrova titolare in finale di Champions League.
Abbasso la tapparella della sala per metà, accendo la tv, premo il tasto play, il film inizia.

La trama è nota: il medico Miles J Bennell fa ritorno alla sua cittadina d’origine, Santa Mira, accorgendosi che in paese è scoppiato uno strano caso di psicosi di gruppo: infatti, alcuni abitanti hanno maturato la convinzione che i loro parenti più stretti siano stati sostituti da dei doppi, che sono uguali a loro ma non sono loro. E non sono umani. Inizialmente Miles non ci crede, ma ben presto i fatti gli daranno torto, e si troverà a far fronte a un’invasione aliena.
La cosa migliore del film è il senso di paranoia che trasmette: una specie di Polanski all’acqua di rose, o un Buzzati in salsa yankee. La narrazione è netta, i tempi serrati, la metafora esibita. Il contagio.
Il contagio…” sussurro mentre scorrono le immagini, buttando un’occhiata in direzione del cielo di cemento. Sono le tre e mezzo del pomeriggio, Santa Mira è già mezza invasa.
Il film ha regalato all’immaginario mondiale i cosiddetti “baccelloni”, ovvero le crisalidi in cui i corpi degli alieni maturano la trasformazione in esseri umani. Sembrano delle arachidi, ma sono enormi e purulente: quando l’alieno sta per uscire cominciano a tremare e buttare schiuma dall’interno. Qualche anno fa decisi di farmi costruire un sacco a pelo a forma di bacellone de L’invasione degli ultracorpi: il progettò sfumò, non ricordo il perché.
È verso la fine del film che mio padre si affaccia alla porta del salotto e mi avverte di qualcosa. Il tono è concitato. Troppo preso dalla visione, non capisco una parola: Miles e la ragazza stanno fuggendo sulle colline intorno a Santa Mira, gli alieni li inseguono, la tensione è alle stelle. Mio padre aggiunge qualcos’altro, neanche questa volta capisco: mi limito ad annuire per levarmelo di torno. Lui mi osserva con occhi increduli, poi lascia la stanza. Sono le quattro.

Il film finisce, riemergo dalla sala tutto indolenzito. Ora in casa non c’è nessuno. Mi frugo in tasca alla ricerca di una sigaretta, trovo il pacchetto vuoto. Mi sa che devo uscire.
Ma cosa mi aveva detto mio padre? Sembrava agitato. Cammino a testa bassa, evitando di calpestare le crepe del marciapiede. Sembrava agitato, sì.
In giro non c’è un’anima, il paese è un set abbandonato. Arrivo alla tabaccheria, infilo i soldi nella macchinetta. Le Camel light sono aumentate, tre euro e venti. Bzzz, ritirare resto, arrivederci e grazie.
Mentre scarto il pacchetto, una voce alla mie spalle: “Ciao…
Mi giro. Davanti a me c’è Giada, una ragazza di quindici anni che sembra una bomboniera. “Ciao…” rispondo sommessamente. Venerdì scorso l’ho incontrata alla discoteca del paese, eravamo ubriachi e abbiamo limonato. “Come stai?” aggiungo, imbarazzato.
Così…” dice lei, facendo spallucce.
Ti va un caffè?
Non mi piace il caffè…” risponde Giada, poi però mi segue. Camminiamo in silenzio, non so cosa dire. Alla fine parlo a caso: “Prima ho visto L’invasione degli ultracorpi…
Che cos’è?” mi chiede lei, senza guardarmi.
Un film di fantascienza…
Ripenso a venerdì scorso, a me e Giada che appoggiati a un pino ci scambiamo la saliva. Il contagio. Dentro di me sghignazzo.
Un giorno se ti va lo guardiamo insieme…” aggiungo. “È un bel film, lo rivedo volentieri…
Può darsi…” bisbiglia Giada, che forse ha colto nella mia proposta una qualche intenzione che non c’era. Incrociamo un tizio sui cinquanta, brizzolato e magro: cammina avanti e indietro in un parcheggio con il telefono attaccato all’orecchio, pare nervoso. “Hai sentito?” dice. “Cazzo, hai sentito?

Ci lasciamo il tizio alle spalle, quando siamo lontani sta ancora ripetendo la sua domanda, hai sentito cazzo hai sentito.
Entriamo in un bar, uno a caso. Giada non parla molto, anche quando eravamo ubriachi stava zitta. È una di quelle quindicenni con il mistero dentro.
Mi fermo al bancone, Giada si siede a un tavolo. Il barista non c’è. Mi volto a sinistra, poi a destra: sotto al televisore si è radunato un gruppo di persone, barista compreso. Sullo schermo scorrono le immagini di un telegiornale estero. Mi avvicino, osservo lo schermo per qualche minuto senza dire una parola. Ma nessuno parla, stiamo tutti zitti. La seconda torre è caduta da meno di mezz’ora. Il giornalista italiano parla con voce concitata, come non ci fosse più tempo. La regia continua a riproporre il momento dell’impatto dei due aerei visto da varie angolazioni, come il replay di un goal. Lo schianto è stato terrificante, poi le colonne di fumo hanno cominciato a salire verso il cielo, nere e grigie. Resto imbambolato a guardare per non so quanto tempo, torturando tra le mani il pacchetto di Camel light, che ora è ammaccato. Quando stacco gli occhi dallo schermo, Giada è al mio fianco.
La osservo, e per un attimo dimentico l’attentato: è proprio vero che sembra un confetto, è proprio vero che ha il mistero dentro.

Sono le cinque e mezzo del pomeriggio.
Santa Mira è invasa.

MARCO NUCCI
Nato nel 1986 a Castiglione dei Pepoli, frequenta il DAMS cinema per poi occuparsi come libero professionista di video editing. Dal 2012 è direttore artistico del festival sul fumetto “Crime City Comics: Dylan Dog”. Dal 2015 è redattore e sceneggiatore presso la Sergio Bonelli Editore. Ha pubblicato 2 libri a fumetti con la casa editrice Tunué.

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