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Electric Dreams – La recensione della serie basata sui racconti di Philip K. Dick

Pubblicato il 10 gennaio 2018 di Lorenzo Pedrazzi

È curioso che il titolo di Philip K. Dick’s Electric Dreams sia ricavato da uno dei romanzi del grande scrittore americano, quel Ma gli androidi sognano pecore elettriche? da cui è stato tratto Blade Runner. La serie, prodotta da Channel 4 e distribuita in Italia da Amazon Prime Video, sceglie il formato antologico per trasporre dieci singoli racconti di Philip K. Dick, peraltro recentemente pubblicati da Fanucci in un nuovo volume, attingendo a un bacino di letteratura breve che ha già ispirato numerosi film: il racconto, più ancora del romanzo, permette infatti di estrapolare facilmente un’idea forte, isolandone il soggetto per svilupparlo nelle modalità che più aggradano gli autori, senza necessariamente rispettare i personaggi e gli sviluppi narrativi dell’opera originale. Questa tendenza è stata dettata da fini commerciali (si pensi a blockbuster come Atto di forza, Minority Report e Paycheck), ma talvolta anche dalla proverbiale “infilmabilità” delle storie dickiane, i cui risvolti grotteschi e poco avventurosi sono accolti con diffidenza da registi, produttori e sceneggiatori.

Insomma, c’è qualcosa di particolarmente appropriato nell’idea di una serie antologica tratta dai suoi racconti, anche perché l’asciuttezza del mediometraggio – quasi tutti gli episodi si attestano sui 60 minuti scarsi – può restituire la secca essenzialità del linguaggio dickiano, pin genere poco propenso alle deviazioni e alle pause riflessive, almeno sulla breve distanza. È proprio per questa ragione che lo sguardo di Electric Dreams lascia perplessi: nel trasporre dieci racconti risalenti alla produzione iniziale di Dick (prima metà degli anni Cinquanta), lo show non cerca un’alternativa alle strade già battute, ma propone sostanzialmente il medesimo approccio utilizzato dal cinema negli ultimi trent’anni, con l’esclusione di due “anomalie” come Screamers e A Scanner Darkly. Ciò significa che, spesso, dell’opera originale resta soltanto il soggetto, ovvero una soluzione narrativa da cui si ramifica una trama completamente diversa, che “uccide” la fonte. È il caso di Crazy Diamond, scritto da un frequente collaboratore di Terry Gilliam come Tony Grisoni: se alcuni elementi grotteschi tengono fede alla poetica di Philip Dick, la sceneggiatura prende una direzione talmente libera e autonoma da rendere quasi inutile il riconoscimento del testo dickiano come radice dell’episodio. Piuttosto, Grisoni e i suoi colleghi tendono a rievocare superficialmente i temi più amati dallo scrittore, come lo smarrimento esistenziale degli androidi in Crazy Diamond, che sperano di estendere il loro ciclo vitale oltre la scadenza imposta dal costruttore.

Il discorso coinvolge praticamente tutti gli episodi, come il pur valido Real Life di Jeffrey Reiner e Ronald D. Moore, dove l’intero arco narrativo si consuma nel dubbio tra realtà e illusione: da un lato c’è infatti una detective del futuro (Anna Paquin) e dall’altra un game designer del presente (Terrence Howard) che vivono l’uno la vita dell’altra grazie a un sofisticato programma di simulazione. A mancare è l’ambiguità, l’inquietudine di un enigma che non ha risposta. Al termine della puntata – in Real Life come in tutta la stagione di Electric Dreams – non c’è mai un dubbio su quale sia la verità, che si rivela palesemente anche quando non sembra necessario; anzi, nel caso di Safe and Sound (che non ha quasi nulla in comune con il racconto da cui è tratto, Foster, sei morto!), il finale è addirittura uno spiegone didascalico, innestato a forza per evitare ogni fraintendimento. In sostanza, la serie rinuncia proprio a ciò che Philip K. Dick amava fare ossessivamente nei suoi lavori: mettere in discussione la realtà costituita, seminando un ragionevole dubbio nella mente del fruitore. L’unico a tentare la strada dell’ambiguità è forse The Impossible Planet, il cui epilogo fonde memoria e trascendenza in un pastiche metafisico che non offre spiegazioni, ma scivola in un melò new age fin troppo stucchevole.

In effetti, Electric Dreams cerca spesso di ammorbidire i toni dei racconti, introducendo un sentimentalismo che non appartiene all’autore. I personaggi divengono talvolta più accattivanti (come in The Hood Maker), e le sfumature emotive hanno un peso maggiore, con risultati altalenanti: Autofac e The Commuter, ad esempio, hanno il merito di toccare il cuore vulnerabile dei personaggi, valorizzando l’onestà dei sentimenti. The Commuter, in particolare, riesce a mettere in scena la banalità del quotidiano e la sincerità dei legami affettivi, ulteriormente valorizzati davanti alla trasfigurazione del reale. Questa distorsione fantastica della “norma” ricorda moltissimo la poetica di The Twilight Zone, e infatti il racconto di Philip Dick – come le storie coeve di Richard Matheson – prefigura in qualche modo lo show di Rod Serling. Dal canto suo, anche il gradevole Father Thing – interpretato da un bravissimo Greg Kinnear – evoca le atmosfere di Ai confini della realtà, ma contemporaneamente ripropone vari tópoi del cinema per ragazzi degli anni Ottanta, pur senza averne la freschezza e l’ironia. Il prevedibile Human Is di Francesca Gregorini e Jessica Mecklenburg, invece, ha quantomeno il pregio di spostare l’attenzione sulla sensualità dei corpi e sulla morbosità degli sguardi, giocando con la tensione erotica fra Bryan Cranston ed Essie Davis.

A livello tematico, soprattutto in rapporto alle ossessioni dello scrittore, più convincente è il clima di paranoia che emerge dal confronto tra l’individuo e il “sistema”, dove le istituzioni adottano subdole strategie di manipolazione e controllo. Il già citato Safe and Sound lavora proprio su questa riflessione, ma il miglior esempio di questo genere – nonché il più riuscito dell’intera stagione – è Kill All Others di Dee Rees, la regista di Mudbound. Con un protagonista estremamente dickiano nella sua “normalità”, Kill All Others narra l’incubo di una distopia nascente, quando il singolo viene messo di fronte all’isolamento sociale: il povero protagonista è una novella Cassandra che vede gli orrori del futuro, ma non viene ascoltato da nessuno e diviene egli stesso un bersaglio del potere. La spietata lucidità di questa disamina non lascia spazio ad alcuna catarsi, poiché nell’adattamento di Rees c’è un disincanto che sfiora la disperazione. Tale precisione satirica, così secca e trasparente, è proprio ciò da cui Electric Dreams dovrebbe ripartire per un’eventuale seconda stagione: invece di confrontarsi con Black Mirror sul campo dell’alienazione tecnologica, la serie farebbe meglio a recuperare lo spessore di Philip K. Dick in termini storici, politici e sociali, in modo da valorizzarne l’universalità per le platee odierne.

Voto: ★★★

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