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L’ACCUSA: trasformare Santa Claus in un supereroe è un’idea balorda.
SVOLGIMENTO: Alexander e Ilya Salkind erano due produttori, padre e figlio, di origini – lo potete indovinare dai loro nomi – franco-messicane. Giuro. Ok, i genitori di Alexander erano ovviamente russi. Nel cinema da generazioni, i Salkind ebbero un primo grande successo con la saga dei Tre moschettieri di Richard Lester, per poi sfondare nel ’79 con Superman, il primo cinecomic ad alto budget.
Pompati dal successo, dovuto non in piccola parte ad alcune innovazioni produttive di loro invenzione, i Salkind si lanciarono su una nuova intuizione geniale: creare un franchise kolossal attorno a uno dei pochi personaggi al mondo più popolari di Superman. No, non Gesù, ma ci siete vicini: Babbo Natale.
L’idea era di narrarne la leggenda in modo tendenzialmente classicheggiante, ma con tutte le caratteristiche strutturali delle storie dei supereroi, con tanto di origin story, superpoteri, avventure e cattivoni. Forse oggi lo dareste quasi scontato vista la popolarità del genere, ma nell’85?
Stando a IMDb, il film era stato proposto inizialmente a – tenetevi stretti – John Carpenter.
Ve lo immaginate? Cioè: quale persona, se gli dici “franchise su Babbo Natale eroe per bambini” pensa a John Carpenter?
Ve lo dico io chi: qualcuno che ha visto solo Starman, l’unico film vagamente sentimentale della sua carriera. Il mio sogno è intervistare John Carpenter e chiedergli quali altri progetti assurdi gli sono stati proposti in carriera, sulla base di Starman, fra l’82 e l’87.
Comunque: lo zio Johnny, che non dice mai di no per principio, risponde “ok ma voglio il final cut, voglio comporre la colonna sonora e a fare Babbo Natale voglio Brian Dennehy”. Che è un po’ come dire “no”, in effetti.
I Salkind, nonostante mettessero sul piatto il budget più ricco dell’anno, incassano un “ma che piffero dici”* da un sacco di altre star famose (Harrison Ford, Burt Reynolds, Dustin Hoffman) e infine si accontentano di Dudley Moore che fa l’elfo creativo, Burgess Meredith che fa l’elfo saggio e John Lithgow che fa il villain. Il ruolo di Babbo Natale va a David Huddleston, che conoscete per via di un altro film il cui titolo è dedicato al suo personaggio: Il grande Lebowski. La regia va invece a Jeannot Szwarc, che per i Salkind aveva già girato l’anno prima il megaflop Supergirl (prossimamente su queste pagine): è forse il primo segnale che le cose non stavano andando lisce come si desiderava, che nessun nome allettante era convinto dal progetto e che si erano già ridotti a “almeno lui lo conosciamo ed è sicuramente libero”.
Lo sceneggiatore David Newman è lo stesso della saga di Superman: coincidenza vuole che l’anno prima pure lui, come Jeannot Szwarc, fosse reduce da un brutto flop, Sheena la regina della giungla (prossimamente su queste pagine). Questo tra parentesi dovrebbe informarvi del fatto che nel 1984 uscirono ben due cinecomic al femminile, entrambi a grosso budget.
Newman per non sbagliarsi ricalca la struttura del primo Superman, e tutto va bene finché ci si concentra sulle origini: semplici ed efficaci. Un uomo e sua moglie amano distribuire giochi ai bambini del villaggio, quando una notte rimangono vittime di una bufera di neve e salvati da magici elfi che li portano in un immaginario Polo Nord dove viene messo a capo della loro gigantesca fabbrica di giocattoli, fa conoscenza delle renne volanti, gli viene fabbricato il famoso costume rosso, ecc… Burgess Meredith gli fa il discorsone ispiratore che fa da sfondo al suggestivo trailer del film alla maniera di Marlon Brando/Jor-El in Superman, gli viene dato il potere magico di piegare il tempo durante la notte di Natale e di teletrasportarsi giù dai camini, e pronti via.
La prima ora è una gioia: sfarzosa, coloratissima, interamente costruita sui più basilari buoni sentimenti e ritmata quasi come un musical d’altri tempi. È un’epoca in cui vedere una slitta che vola era già il massimo degli effetti speciali, per cui sul resto ce la si gioca felicemente su stereotipi ingenui ma convinti, e come favola gli si può dire davvero poco.
Fast-forward ai giorni nostri, e al Polo Nord iniziano ad essere preoccupati dalle derive della società consumistica, come se in tutto il mondo esistesse solo New York: l’elfo Dudley Moore ingegna nuovi metodi di catena di montaggio per costruire più giocattoli più in fretta, e Babbo Natale decide di fermarsi a fare la conoscenza di un piccolo senza tetto di 10 anni innamorato di una coetanea ricchissima con cui da tempo si scambiava sguardi silenziosi. Babbo Natale gli lascia guidare la slitta per la città in una sequenza che ricalca platealmente il romantico volo tra Superman e Lois Lane (tranne che qua ci sono un signore anziano e un bambino), e poi fa incontrare i due piccoli platonici spasimanti.
La mia scena preferita è quella che mostra le conseguenze dei due bambini che raccontano della notte precedente: lui viene picchiato dai suoi amici bulli di quartiere; lei, uhm, viene picchiata dalle sue compagne di danza classica. Non avevo idea che dire in giro che Babbo Natale esiste scatenasse reazioni così violente.
La vera trama scatta solo a secondo tempo inoltrato: la catena di montaggio ideata dall’elfo Dudley ha effetti collaterali sulla qualità, i giocattoli si rompono e il nostro viene licenziato. In autoesilio sulla Terra, decide di offrire i suoi servigi al Lex Luthor della situazione, un John Lithgow in overacting fuori scala. Babbo Natale praticamente sparisce dalla scena per lasciare agli altri due lo screentime richiesto dai rispettivi agenti, ma la storia dell’imprenditore arrogante che vuole commercializzare il Natale diventa di colpo semi-improvvisata e sfilacciatissima, e anche lievemente ipocrita in un blockbuster che contemporaneamente infila il più grosso product placement di McDonald della storia, perdendo tragicamente tutto il fascino accumulato fin lì. Nel finale il povero Lithgow sconfitto viene visto volteggiare nello spazio e chiedere aiuto in barba alle più banali leggi fisiche, e ti aspetti che arrivino il Generale Zod e i suoi scagnozzi a recuperarlo per un sequel.
Il principale motivo del flop commerciale di Santa Claus: The Movie è fondamentalmente spiegabile con un dato solo: uscì lo stesso giorno di Rocky IV. Con i media e il pubblico concentrati altrove, esordì al secondo posto con un quarto degli incassi del rivale e finì la sua corsa recuperando a malapena metà dell’esagerato budget.
Oggi è un film non del tutto dimenticato, che la gente tutto sommato ama iniziare a guardare volentieri quando passa in tv per poi, immagino, cambiare canale a metà.
Ora però non riesco a togliermi dalla testa l’idea carpenteriana di un Babbo Natale interpretato dallo sceriffo di Rambo.
IL VERDETTO: il primo atto, dalle origini fino all’incontro coi bambini, è più che dignitoso e conserva un certo fascino d’altri tempi, ma il motivo per cui nel film viene stirato il più possibile risulta chiaramente dettato dalla consapevolezza di non avere qualcosa di altrettanto succoso su cui proseguire. In ultimo, si ha la sensazione di guardare un velocista che prova a correre i 400 metri.
COSA HO IMPARATO: continuo a difendere in materia di principio l’idea di costruire un franchise supereroistico intorno a un panzone sessantenne, ma non bastano le origini a creare un mito, bisogna avere anche uno straccio di idea sostenibile sul tipo di avventure da fargli vivere.
Inoltre: mai mettersi contro Rocky. MAI.
* niente parolacce, è Natale
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