Memento, Mementote! – L’apocalisse

Memento, Mementote! – L’apocalisse

Di Marco Nucci

Un ricordo.
Il manifesto è blu, bianco e verde. Kirsten Dunst indossa un abito da sposa, lo sguardo è terso, ci osserva. Melancholia. Fa freddo, a Bologna. Rosa si è accesa una sigaretta, anche se fa freddo da morire. La gente è già entrata in sala da qualche minuto, il film sta per iniziare. Il Lumière di Bologna ha due sale, una intitolata a Martin Scorsese, l’altra a Marcello Mastroianni. Il film di Lars von Trier sarà proiettato nella seconda. Vorrei chiedere a Rosa di spegnere la sigaretta, ma lei mi sorride, mi dà un bacio, e così sto zitto, continuo a prendermi il freddo.

Nel ricordo, sono ancora fidanzato con Martina, stiamo insieme da tre anni. Io e Rosa usciamo di nascosto, percorrendo strade poco battute, come ratti nei cunicoli della Bologna antica. Stasera però siamo stati sfacciati: spettacolo delle ventuno al Lumière, la sala sarà gremita, ci sono discrete probabilità di incrociare qualcuno che conosciamo, magari un amico di Martina. Spiffererebbe tutto, sarebbe un casino. La cosa non mi preoccupa: mi sono preso una cotta paurosa, vivo completamente distaccato dalla realtà. Un soldatino stordito dal cordiale, che stasera si è buttato fuori dalla trincea.

Rosa è una ragazza imprevedibile, scostante, coltissima. Nouvelle Vague pura. È una cara amica di Martina, anzi, è stata proprio lei a presentarmela. “Non è che ti piace?” mi ha chiesto a suo tempo. “Mi è simpatica, ma anche a te è simpatica… siete amiche, no?” ho risposto. “E allora perché la guardi così?” “Così come?” “Non lo so…”. Martina non è più tornata sull’argomento, ma lo vedo come si irrigidisce quando sente il nome di Rosa. Osservo ancora una volta il manifesto blu, bianco e verde di Melancholia. L’apocalisse.
Mezz’ora dopo il film è iniziato. Io e Rosa siamo entrati in sala Mastroianni che le luci erano già spente, nessuno può averci visto. Ci siamo sistemati in fondo alla sala, un po’ perché davanti non c’era posto, un po’ perché gli amanti fanno così. Lei si è avvinghiata al mio braccio, la testa sulla spalla: lo fa anche Martina, quando andiamo al cinema.
Ti senti in colpa?” mi domanda Rosa dal nulla, con il tono piatto di certe femmine ipnotizzate dei film di Antonioni. Lascio cadere la domanda nel vuoto, le do un bacio sulla fronte.

Melancholia è un bel film: una visione potente, messa in scena senza sbavature. L’apocalisse di von Trier è tangibile su tutti i livelli di lettura. Mette paura. A un certo punto della storia, Kirsten Dunst costruisce un oggetto che serve per controllare se il pianeta Melancholia si sia avvicinato o allontanato dalla terra: si tratta di un semplice bacchetto di legno, a cui il personaggio ha legato un pezzo di fil di ferro che poi ha chiuso, a formare un cerchio. Se si osserva Melancholia attraverso quel cerchio, al controllo successivo ci rende conto se il pianeta, visto dalla terra, risulta più grande o più piccolo.

Il finale è sconvolgente, un’esplosione grandiosa, che dissolve l’ultimo frame sul bianco e lascia il pubblico di sala Mastroianni attonito. Io e Rosa usciamo in fretta, infilandoci i cappotti mentre camminiamo. Butto una rapida occhiata in sala: nessun pericolo in vista. Controllo il telefono, c’è un massaggio di Martina: mi chiede se la serata con Alberto stia andando bene, mi invia dei cuoricini. “Si, tutto bene… buonanotte, bella! ❤ ❤ ❤” rispondo. Rosa sta fumando di nuovo e, in silenzio, sorride. Fa ancor più freddo di prima. Getto un’occhiata distratta verso il cielo, alla ricerca del pianeta Melancholia. Niente.
A fine serata Rosa ha un attacco di panico. Non faccio domande, mi limito a starle accanto. Quando si tranquillizza, mi dice che è meglio se stasera dormo a casa mia. Mi dà un bacio. “Ti amo…” aggiunge. “Ti amo anch’io…” rispondo.

Ci rivediamo due giorni dopo, da Ortica, un locale vicino a strada Maggiore imbucato in una viuzza laterale. Ho con me un regalo: si tratta di un oggetto identico a quello del film, un osservapianeti. L’ho costruito con le mie mani, firmandolo con una M incisa sul legno. M per Marco, o per Melancholia. Ridicolo.

Rosa mi ringrazia, mi dà dello scemo, poi del genio, ma io lo vedo che ha qualcosa che non va. “Qualcosa non va?” domando. “Si…” risponde lei. Scopro che in soli due giorni è riuscita a disinnamorarsi di me e a innamorarsi di un’altra persona, una ragazza bionda che non vedrò mai. Pare scriva poesie bellissime. “Mi dispiace…” conclude Rosa. Ordino una bottiglia di vino nero, la beviamo tutta, in silenzio, a testa bassa, poi ce ne andiamo. Il giorno dopo, confuso dai postumi della sbronza, mi presento a casa di Martina: le chiedo scusa per averla trascurata, la abbraccio forte. Facciamo l’amore, usciamo a mangiare qualcosa, passeggiamo nel freddo. Nevica.

Passano i giorni, poi i mesi, dimentico Rosa. Esce il dvd di Melancholia. “Tzè… poesie…” sibilo con rabbia mentre passo di fronte alla scansia della Feltrinelli.

Qualche giorno dopo mi trovo nel municipio di Castiglione dei Pepoli: una riunione. Davanti a me c’è Maurizio, il sindaco, un amico. Sta cercando fondi per riaprire il cinema del paese, che è chiuso da dieci anni e necessita di una pesante opera di ristrutturazione. L’impresa appare disperata, servono centomila euro. È in cerca di idee, e a me ne è venuta una. È nata l’altro giorno, dopo aver visto il dvd del film di von Trier. Si tratta di un’idea idiota, con scarsissime probabilità di successo. Eccola: “Costruiamo cento esemplari numerati dell’osservapianeti di Melancholia, poi li facciamo firmare da Lars von Trier e li vendiamo a mille euro l’uno, numerati. Ci mettiamo anche una bella M incisa sul manico, che è l’iniziale del titolo. In cambio, diciamo a Lars che chiamiamo il cinema Melancholia! Che ne dite?
La mia proposta viene respinta in una risata generale, e tutto sembra finire lì. Qualche giorno dopo Maurizio mi richiama: “Ci ho ripensato… Sai che quell’idea non era malvagia? In fondo, cosa possiamo perderci?”. Nel frattempo, ho parlato della cosa con Martina, che ha riso come una matta e mi ha preso in giro allo sfinimento. Stiamo andando alla grande, io e lei. Reagisco alle sue amorevoli provocazioni fabbricandole un osservapianeti nuovo di pacca. Anche questa volta vi incido sopra una M. Melancholia. Marco. Martina. Mamma Mia.
Io e Maurizio scriviamo una mail a von Trier, poi la facciamo tradurre in inglese da un’amica che ha studiato lingue e la inviamo con la PEC autenticata del comune. Non avremo mai alcuna risposta.

UN ANNO DOPO

Fa di nuovo freddo, è di nuovo sera, ma questa volta sono io che fumo. Mi trovo davanti alla sala prove di via Emilia Ponente, dove ho suonato con la mia band, i “San Giovanni”. Siamo bravi, la nostra pagina facebook dice che facciamo rock alla Polanski. Gli altri sono ancora dentro che smontano, ma io no, perché canto e ho solo il microfono. Martina è uscita con le amiche, una cosa tra donne: mi ha detto che sarebbero passate a trovare Rosa a casa, non la vedono da tanto. I sospetti di Martina sono svaniti, ha anche smesso di irrigidirsi quando sente il nome di Rosa. In questa faccenda ho detto un sacco di bugie, lo so, ma alla fine tutto è andato al suo posto. Basta che funzioni, diceva il protagonista di un film di Woody Allen che forse mi è piaciuto e forse no. Me le immagino a parlare del più e del meno, in salotto, mentre ridono e si arrotolano delle sigarette di trinciato scadente. Rosa confessa a Martina della sua relazione con la poetessa, Martina rimane sorpresa, ma in fondo è solo felice, visto che la cosa conferma l’infondatezza dei suoi sospetti su di me. Martina si alza per prendere dell’altra birra, entra in cucina. Mentre si dirige verso il frigo, un oggetto appoggiato sulla credenza cattura la sua attenzione: è un osservapianeti, con una M incisa sul manico.

Cazzo!” esclamo, poi butto a terra la sigaretta e corro in direzione dell’automobile, senza neanche salutare gli altri. Come ho fatto non pensarci prima? Rosa ha un osservapianeti identico a quello di Martina, con tanto di M sul manico, e magari lo tiene in salotto, in bella vista! Non può essere così stupida, mi dico mentre sterzo in direzione dei viali. “Ma magari si!” sbraito, questa volta a voce alta. Semaforo rosso. Pugno sul volante. Rabbia. Devo andare a casa sua, fingere un’improvvisata, controllare. Questa non è una cosa che si può lasciare in mano al destino. Dopo un quarto d’ora sono in via San Donato: parcheggio in un posto per disabili, respiro, bestemmio, scendo. Rosa risponde al citofono subito: quando sente la mia voce, per qualche secondo non riesce a dire niente, poi mi apre. Salgo le scale, entro nell’appartamento: in salotto c’è Martina, insieme a Rosa, Sara e altre che non ricordo. “Ciao…” rantolo, con il fiato spezzato. “Come va?
Cosa ci fai qui?” mi domanda Martina, con appeso sulla testa un punto interrogativo grande come il pianete Melancholia. È felice di vedermi, certo, eppure la mia presenza, oltre a essere inspiegabile, fa riemergere in lei i vecchi sospetti. Li vedo risvegliarsi nei suoi occhi, come delle lucette nere.

Un’improvvisata…” rispondo, cercando di sorridere nel modo più credibile che mi riesce. “Abbiamo finito prima, passavo qui davanti…
Mi siedo il più lontano possibile da Rosa, mi accendo una sigaretta, si parla. Martina continua a fissarmi in silenzio, con gli occhi a fessura, io faccio il disinvolto, racconto delle banalità, ma intanto mi guardo in giro: il salotto è pulito, nessuno osservapianeta in vista. È già qualcosa. Mi offro di andare a prendere delle altre birre: mentre lascio la stanza lancio un’occhiata complice a Rosa, che dopo un minuto mi raggiunge in cucina con una scusa che mi sembra plausibile, probabilmente una cosa sulla fame chimica. A filo di voce, le chiedo dove abbia ficcato l’osservapianeti, poi sghignazzo sommessamente, rendendomi conto dell’assurdità di tutta la faccenda. “L’ho lasciato da Ortica, la sera in cui me l’hai dato. Eravamo ubriachi, è rimasto sul tavolo…” risponde lei. Dovrei esultare, ma il fatto che Rosa abbia abbandonato in quel modo l’oggetto mi dà sui nervi. “Stronza…” sussurro, ma lei è già andata via.

Un quarto d’ora più tardi sono in strada. Ho finto che Alberto mi abbia scritto per andare a bere qualcosa in centro. Prima di uscire, ho baciato Martina: lei mi guardava ancora strano. Non importa, i suoi sospetti li metterò a posto domani.
Domani arriva, poi ne arriva un altro, e così via finché non passano tre mesi e io e Martina ci lasciamo. L’osservapianeti non c’entra, i motivi sono altri, più radicati. Melancholia ci ha spazzati via, per sempre. Se ci penso oggi, un po’ mi dispiace che tutto non sia precipitato con il rinvenimento dell’oggetto in casa di Rosa. Non sarebbe stato un finale perfetto?

Intanto, i “San Giovanni” si sono sciolti, il mondo è costretto a rinunciare alla ribalta del rock alla Polanski. La vita è triste.

OGGI

Martina, da qualche tempo, fa la ballerina di danza contemporanea a livelli professionali. Ogni volta che ci penso, mi rendo conto di quanti aperitivi vegani mi abbia evitato il nostro destino infausto. Menomale. Di tanto in tanto parliamo, ma smettiamo subito, perché non dobbiamo dirci niente.

Qualche settimana fa, Rosa (che in realtà ha un altro nome e non è più innamorata della poetessa) mi ha scritto su facebook, semplicemente per chiedermi come stavo. Le ho chiesto se si ricordava della faccenda dell’osservapianeti: ha riso con un’emoticon, poi mi ha inviato l’adesivo di un teschio, a cui ho controbattuto con quello di un astronauta spazzato via da un meteorite, che è blu, bianco e verde. L’apocalisse.

MARCO NUCCI
Nato nel 1986 a Castiglione dei Pepoli, frequenta il DAMS cinema per poi occuparsi come libero professionista di video editing. Dal 2012 è direttore artistico del festival sul fumetto “Crime City Comics: Dylan Dog”. Dal 2015 è redattore e sceneggiatore presso la Sergio Bonelli Editore. Ha pubblicato 2 libri a fumetti con la casa editrice Tunué.

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