Qual è il cult di Natale per eccellenza?
Una domanda che non troverà mai una risposta o, per essere più precisi, è destinata a trovare moltissime risposte. Sì, perché tutti noi abbiamo il nostro film preferito e tutti noi ogni anno, cascasse il mondo, ci ritroviamo a guardarlo, rivivendo quella che si può benissimo definire una tradizione cinematografica.
Ciononostante, abbiamo provato lo stesso a dare una risposta a questa domanda, coinvolgendo tutta la nostra redazione e alcuni nomi illustri come Nanni Cobretti, Doc Manhattan, Michele Monteleone e Marco Nucci.
E, proprio come specificato sopra, abbiamo capito una volta per tutte che non esiste il film di Natale. O per meglio dire esiste, ma la risposta vale solo per ognuno noi.
Sarò scontato, ma per me il film di Natale è ancora il pluricelebrato documentario sullo storico avvenimento sportivo che in un 25 dicembre di metà anni ’80 mise fine alla guerra fredda fra USA e URSS: Rocky IV. Che altro serve in un periodo come questo?
Una storia edificante, uno scontro fra culture differenti che decidono di risolvere le loro differenze alla maniera dei gentiluomini (a pugni), un progressivo studiarsi e capirsi e infine accorgersi che sotto sotto siamo tutti umani, crediamo tutti negli stessi valori (quelli degli USA) e insieme possiamo cambiare: il tutto, sancito dall’immagine ormai iconica di Mikhail Gorbachev che si alza ad applaudire la vittoria di Rocky Balboa sull’eroe locale Ivan Drago, che nell’immaginario della nostra generazione è seconda solo a quella di Pertini che esulta per il gol di Tardelli alla Germania. Anche le sottotrame sono importanti: ad esempio quella sull’amore senza pregiudizi tra un ubriaco di mezza età e un robot telecomandato, o quella del nero che adempie al suo ruolo prescritto di morire per primo ma lo fa in un impeto patriottico che ancora oggi dovrebbe essere di esempio a tutti quelli che per il loro paese si limitano a scrivere gli hashtag su Twitter.
E vogliamo parlare della quantità incredibile di memorabili momenti musicali? Che altro vuoi chiedere a un film di Natale?
So che potrà sembrare strano, me ne rendo conto, ma il mio film di Natale preferito è Una poltrona per d… ci avevate creduto. No, dai, quello non vale: non è un film di Natale, per molte famiglie italiane È il Natale. Scelgo Gremlins, non solo perché la pellicola di Joe Dante del 1984 – scritta da un allora giovanotto di belle speranze, Chris Columbus, ispirato dai topi che ballavano la lambada strofinera sopra il suo appartamento di Manhattan – è a tema natalizio, ma perché ha sempre rappresentato per me una metafora perfetta del Natale in sé. Hai poche, semplici regole per sopravvivere a cenoni con parenti che ti stanno sulle balle, scambi di regali inutili e pubblicità piene di neve e cieli stellati anche se fuori fa 20 gradi e abiti in una periferia inquinatissima in cui il firmamento non si vede più dallo scoppio della rivoluzione industriale, metti. Poche regole, e semplicissime, si diceva, ma non le rispetta mai nessuno. E giù di indigestioni, sensi di colpa, promesse vaghe di iscrizioni in palestra a gennaio (meglio a fine mese, metti t’invitano da qualche parte all’Epifania), psicodrammi familiari per posti a tavola invertiti e cravatte regimental a lingua di mucca in riciclo perpetuo nello stesso parentado dal 1989. Gremlins è così. Nel suo essere una commedia horror ancora più edulcorata di quanto volesse Columbus dalle decisioni di Spielberg e della Warner, è un film in cui Billy sottovaluta le istruzioni d’uso di un mogwai come si fa con un cenone alla presenza di almeno due zii che raccontano sempre le stesse barzellette vecchie e sconce. E tutto va come sappiamo. È una festa fondamentalmente triste, il Natale, anche se le pubblicità ti raccontano il contrario, e Gremlins è lì da oltre trent’anni a ricordarcelo. Questo e il fatto che alla fine Gizmo ferma Ciuffo Bianco e salva tutti sulla Corvette fucsia di Barbie. Cioè, è stata la perfida bambola Mattel a salvare il Natale e il pianeta, rendiamoci conto.
Premetto che, se non fossero stati scelti, avrei parlato, nell’ordine, di Arma Letale e di Mamma, ho perso l’aereo, i miei film natalizi preferiti, invece, per evitarvi doppioni, vi parlo di una mia strana abitudine e del perché è nata. È il natale 1996, ho otto anni, a Claudio Maiorana, un mio compagno di scuola, hanno appena regalato il VHS dello Squalo di Spielberg e mia madre mi ha scaricato a casa sua mentre è impegnata a preparare il pranzo. È il giorno più bello della mia vita. Per comprendere l’epicità della cosa dovete sapere che i miei, ogni estate, mi vietavano di vedere il film, che in quegli anni viene passato su Mediaset con la stessa frequenza della pubblicità della Bilboa (quella con la tipa in topless su una spiaggia caraibica per capirci). Non aver visto Lo Squalo, per i miei compagni di scuola, fa di me una sorta di menomato ed è per questo motivo che quel pomeriggio, a un metro dallo schermo del Sony da quindici pollici della cameretta di Claudio, c’è il bambino più felice al mondo. E, lo stesso stupido bambino felice, da quel momento, farà di quella visione fuori stagione, il suo feticcio e, con la stessa perseveranza con cui Italia Uno replica Una Poltrona per due, vedrà ogni natale il capolavoro di Spielberg, incurante dello spiffero freddo che arriva dalla finestra aperta, ma immaginando invece di trovarsi con i piedi a mollo sulla spiaggia bianca di un’isola tropicale… possibilmente in compagnia della modella della Bilboa.
È nato prima l’uovo o la gallina? Realizzando la riduzione cinematografica del libro di Dickens, la Walt Disney Company si interroga sulla millenaria domanda. Paperon de’ Paperoni uscì dalla penna di Carl Barks con il nome di Scrooge: sarebbe dovuto apparire soltanto in un episodio a fumetti (“Natale sul Monte Orso”) ma, dato il successo e la scintilla che scattò tra il personaggio e il suo creatore, Paperone continuò ad affacciarsi tra le fila del cast dei paperi, fino a diventare il monumento della Nona Arte che tutti conosciamo. Il papero più ricco del mondo, all’esordio, non è quindi niente più che la parodia del suo omonimo Ebenezer, a cui “ruba” nome e caratteristiche, sia fisiche che psicologiche.
Nel film, abbiamo uno Scrooge interpretato da Paperone, quindi da Scrooge, dove in origine avevamo un papero che interpretava Scrooge, diventando Scrooge egli stesso. Spike Jonze non avrebbe saputo fare di meglio.
Ma il film? Com’è il film? Si tratta di una felicissima parodia Disney, solida nell’impianto, magica nell’atmosfera, ammantata da tocchi gotici di insuperata efficacia. A mio parere, la miglior riduzione della novella dickensiana mai realizzata per il grande schermo. Non passa Natale in cui non me la riguardi: io ho poco tempo, lei dura venti minuti, andremo per sempre d’accordo. E per tornare alla domanda iniziale, a quanto pare la risposta era papero: è nato prima il papero!
Cult di Natale? Non ho dubbi: Arma Letale, la pellicola scritta da Shane Black e diretta nel 1987 da Richard Donner, che ha portato per la prima volta sul grande schermo la strana coppia formata da Martin Riggs (un insuperabile Mel Gibson) e Roger Murtaugh (un altrettanto bravissimo Danny Glover, perennemente “troppo vecchio” per stronzate del genere).
Non è stato concepito come film di Natale, è vero, ma l’avvicinarsi delle feste coincide con l’evolversi della storia ed è la perfetta cornice di una pellicola che ci propone in modo diverso quel riscatto personale che contraddistingue titoli come Il Canto di Natale o La Vita è Meravigliosa di Frank Capra.
Lo stesso Shane Black ha ammesso di aver ambientato di proposito la storia durante il periodo delle festività, quando chi è solo si sente veramente solo e quando, volenti o nolenti, ci ritroviamo a tirare le somme della nostra vita.
Lo sa bene Martin Riggs, che proprio come George Bailey, il protagonista de La Vita è Meravigliosa, è pronto a compiere un gesto estremo perché non vede più un futuro. Non riesce più a considerare le persone che gli sono attorno come tali, proprio come l’Ebenezer Scrooge di Charles Dickens, e ritrova la speranza solo dopo un lungo e difficile percorso interiore.
Arma Letale parla di amicizia, della volontà di cambiare sul serio, che si concretizza nel finale con un regalo di Natale anomalo ma carico di significato. Una pallottola speciale, che Riggs conservava per compiere il suo suicidio e che viene donata a Murtaugh perché ormai non serve più.
È questo lo spirito del Natale.
Sto per compiere otto anni quando Batman torna finalmente al cinema. È l’autunno del 1992, e stavolta tocca a mia madre – non a mio padre – il compito di accompagnarmi in sala: è il segno che qualcosa sta cambiando, anche se forse non me ne rendo conto.
A casa abbiamo una gatta nera, dolce e bellissima, con il mantello lucido come velluto, ma non le abbiamo ancora dato un nome. Così, quando scopriamo che la Catwoman di Batman Returns ha una gatta nera quasi identica alla nostra, io e mia madre prendiamo una decisione: le assegneremo lo stesso nome, qualunque esso sia.
Andiamo in centro, nelle sale di prima visione. Corso Vittorio Emanuele è ancora la Broadway dei cinema, e il pubblico si dispone in lunghe file che partono dagli ingressi, sotto i portici, e invadono il viale. È proprio come a Natale, ma questo clima giulivo si ripete ogni fine settimana. Curiosamente, l’aria di festa impregna anche il film: un supereroe natalizio, che strano… e allora capisco subito che, per me, Batman Returns resterà sempre legato all’idea del Natale come sospensione dalla norma, come eccezione sognante e meravigliosa, spesso dolente. È una fiaba oscura, immersa in quel gelo invernale che si sposa con la natura del Pinguino, malinconico re dei freaks. Lui non può strapparsi la maschera dal volto, al contrario di Batman e di Catwoman, che la indossano volontariamente per incutere terrore o riscattare il passato. No, Oswald Cobblepot non è così fortunato: maschera e volto coincidono nella sua figura grottesca, così tragica e sola. Uomo Pipistrello, Donna Gatto e Pinguino: tre maschere in conflitto, prigioniere di loro stesse, impossibilitate a comunicare.
E il Natale è sempre lì, alla fine. Non è il Natale delle carole, delle luci colorate e della gioia danzante, ma la festa della neve che assorbe i rumori e livella i colori: una celebrazione della metropoli zitta e desolata, dove le solitudini si aggirano in silenzio. Forse è ancora troppo presto perché possa apprezzarlo fino in fondo, ma resto ammaliato di fronte a quell’atmosfera ombrosa e solenne. L’epilogo – bellissimo – ne sintetizza la magia: non c’è alcun idillio tra Batman e Catwoman, incapaci di alleviare la propria solitudine. L’elegante gatta nera, però, riempie il vuoto che li separa, unico punto di contatto fra le loro maschere.
Sono stato attento, durante la visione: si chiama Miss Kitty.
Quello sarà il nome.
Sembra incredibile che, nella storia umana, siano esistiti gli anni ’80. Non c’era praticamente alcun sentore del loro arrivo fino al 1979, credo fino a My Sharona circa. E subito dopo il 1990 sono spariti quasi senza lasciare traccia, sepolti da camicie in flanella, gruppi depressi e generale male di vivere working class. Perché dico questo? Perché gli anni ’80 rappresentano un’anomalia anche per quanto concerne la definizione di “film per famiglie”. Oggi sarebbe impensabile realizzare qualcosa come S.O.S. Fantasmi, una versione del Canto di Natale di Dickens che inizia con un cadavere decomposto che si fa un drink mentre il Nostro Eroe (un Bill Murray in versione Gordon Gekko) lo impallina in preda al panico e – senza alcun dubbio – a una botta di cocaina. E forse sarebbe anche difficile trovare dei genitori disposti a sedersi sul divano di casa e condividere detto film con i figli come nulla fosse. Grazie al cielo i miei lo hanno fatto, altrimenti non avrei mai scoperto S.O.S. Fantasmi (titolo italiano paraculissimo di Scrooged, che però a sua volta è un titolo meta, quindi in fondo va bene!). Ovvero la quintessenza delle storie natalizie, nonché, diciamocelo, il miglior adattamento di Canto di Natale di sempre. Grazie, Richard Donner. Grazie di tutto.
Gli anni ’80 ci hanno regalato decine di film per ragazzi memorabili. Alcuni sono diventati famosissimi e sono ancora oggi amati e celebrati; altri invece, nonostante tutto, devono accontentarsi del titolo di “piccolo cult”. Un esempio per me principe, nonché uno dei miei personalissimi must natalizi, è Piramide di paura (Young Sherlock Holmes), uscito nel 1985 e immeritatamente schivato dal successo.
Trattasi di uno degli Sherlock Holmes ‘apocrifi’ più belli di sempre, scritto con grande rispetto dell’opera di Sir Arthur Conan Doyle ma anche con diverse ispirazioni interessanti da un Chris Columbus ancora in vena, subito dopo aver firmato le sceneggiature di due film che, invece, non hanno bisogno di presentazioni: Gremlins e I Goonies. La storia narra il primo incontro tra Holmes e Watson, ancora adolescenti, e il primo caso che si ritrovano ad affrontare: quello che li vedrà contrapposti a una terribile setta di origine egizia nel cuore di Londra.
A dirigere, Barry Levinson, che solo un paio di anni dopo avrebbe conquistato pubblico e critica con Good Morning, Vietnam e Rain Man – L’uomo della pioggia. Il tutto prodotto dal Magno “zione” Stephen Spielberg, l’uomo che ha plasmato gran parte dell’immaginario cinematografico di quegli anni.
“Prima di una vita di avventure, l’avventura di una vita”: in Piramide di paura c’è tutto, dall’azione al romanticismo, dal mistero alla fantascienza, dal terrore al racconto di formazione.
E poi, potete fare un figurone con amici e conoscenti grazie ai suoi trivial. Sapete, ad esempio, che vanta il titolo di primo film con un personaggio interamente realizzato in computer grafica (da una Pixar ancora pre-lasseteriana, per giunta!)? O, ancora, che il protagonista Nicholas Rowe, pochi anni fa, ha interpretato nuovamente Sherlock, in versione adulta, nel “film dentro il film” presente in Mr. Holmes? E che, soprattutto, le atmosfere potteriane per come le conosciamo tramite il cinema, derivano proprio da Young Sherlock Holmes, a cui evidentemente Columbus si è rifatto nel momento di girare i primi due film sul maghetto occhialuto?
Bene, ora non avete più scuse: recuperatelo e vedetelo alla vigilia insieme ai vostri cari!
Il caminetto acceso, snack vari, una bella poltrona comoda, e se gli astri sono propizi la micia in braccio o spaparanzata accanto, e una videocassetta nel videoregistratore: Mamma, ho perso l’aereo è il mio guilty pleasure delle feste natalizie.
Un po’ tutti ci siamo identificati con il piccolo Kevin, i parenti ingombranti, la mancanza del nostro cibo preferito a tavola, ma soprattutto il desiderio di veder sparire il nostro parentado e il poterci godere la casa in solitario dopo l’immancabile pranzo di Natale.
Assieme al nostro compagno di avventure, tra una risata e l’altra, riscopriamo ogni volta l’importanza del perdono e quanto in fondo in fondo vogliamo bene ai nostri cari.
La scrittura di John Hughes rende quest’opera un classico intramontabile che nonostante le ripetute visioni non smette mai di emozionarti e di trasmetterti quello spirito natalizio che ormai tendiamo a sostituire con il consumismo.
E non dimentichiamoci della bellissima colonna sonora di John Williams, spesso dimenticata, e in particolare i potenti cori di ‘Somewhere in my Memory’.
Come le trappole di Kevin, il film funziona senza sbavature, e ti cattura.
I regali, le cene con i parenti, il pandoro (il panettone no, l’ho sempre detestato), l’albero di Natale e così via: le feste natalizie portano con sé tutta una serie di tradizioni che anno dopo anno si solidificano e si cementano le une sulle altre. Alle soglie del 1991 avevo 8 anni, quando per la prima volta vidi in televisione quello che poi sarebbe diventato un classico natalizio che si sarebbe aggiunto alle mie indissolubili tradizioni: Fantaghirò.
La favola televisiva con protagonista Alessandra Martines, condita di personaggi abbozzati e situazioni al limite del ridicolo, appariva agli occhi di un bambino – o almeno ai miei – come un qualcosa di incredibilmente maestoso e spettacolare: Fantaghirò si rivolgeva, con il suo linguaggio limpido ed i suoi semplicissimi messaggi positivi e buonisti, direttamente alla parte di me che voleva sentirsi adulta, comunicandomi in una chiave tutta nuova gli stessi ideali che nei cartoni animati tendevo ormai a sottovalutare: erano attori in carne ed ossa quelli, ed era direttamente a me che parlavano!
La saga di Fantaghirò (che nel frattempo si arricchiva di sequel ed apriva un filone a tratti imbarazzante per la tv italiana) rispondeva perfettamente – e speriamo volutamente, ma non ne siamo sicurissimi – ad un’esigenza infantile, aprendo ad un bimbo di 8 anni un mondo fatto di adulti, di personaggi reali pur se inseriti in un contesto fantastico. Allo stesso modo oggi mi riporta indietro a quei tempi, riuscendo a farmi ritrovare ogni volta il bambino che è in me. Un classico imperdibile da guardare e riguardare anno dopo anno.
Ora tocca a voi! Qual è il vostro Cult di Natale? Fatecelo sapere lasciando un commento!