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Bright è il figlio naturale del fantasy e del buddy cop: la recensione

Pubblicato il 22 dicembre 2017 di Lorenzo Pedrazzi

Il cinema post-moderno continua a testare la permeabilità dei generi attraverso contaminazioni sempre più ardite, e Bright è un caso davvero emblematico di questa tendenza. Primo blockbuster nella storia di Netflix, il film di David Ayer sarebbe una produzione di livello “medio” se giudicata con i parametri hollywoodiani, ma non c’è dubbio che i suoi registri siano gli stessi dei grandi tentpole: predilezione per lo spettacolo visivo, effetti speciali come strumento di suggestione, e rilettura dei generi nelle logiche del nuovo cinema of attraction.

Questi elementi trovano spazio in una bizzarra dimensione alternativa dove le creature delle fiabe e del folclore popolare – orchi, elfi, fate… – sono reali, e convivono con gli umani nella Los Angeles del presente. Nick Jacoby (Joel Edgerton) è il primo orco poliziotto negli Stati Uniti, e lavora in coppia con Daryl Ward (Will Smith), un umano che sopporta a malapena il suo insolito partner. Il povero Nick, a dire il vero, è ostracizzato su più fronti: gli umani diffidano di lui in quanto orco, i colleghi del dipartimento lo vedono come una minaccia, mentre gli orchi stessi lo disprezzano perché di sangue “impuro”. I titoli di testa introducono tali conflitti in modo creativo, proponendoci una carrellata di murales (fittizi) che raccontano per sommi capi la storia di questo mondo, stabilendo al contempo la suddivisione fra le classi sociali e la discriminazione delle minoranze etniche. Problemi che Nick e Daryl sono costretti a lasciarsi alle spalle quando s’imbattono in un’arma illegale, una potentissima bacchetta magica inseguita dalle gang ispaniche, dagli orchi e da una letale elfa chiamata Leilah (Noomi Rapace), una delle poche in grado di brandirla. Le bacchette, infatti, sono maneggiabili solo dai bright, individui “speciali” che possono controllarne i poteri ed esaudire qualunque desiderio. I due agenti devono quindi proteggere la bacchetta e la sua attuale proprietaria, Tikka (Lucy Fry), elfa fuggitiva che vuole evitare una catastrofe.

Titoli di testa a parte, la prima mezzora svolge bene la sua funzione introduttiva, coagulando in sé le invenzioni più valide del copione di Max Landis. Lo sceneggiatore ambisce a trattare il presente in forma di metafora, quindi elabora una struttura sociale che, nel tentativo di riflettere il nostro mondo, risulta schematica ma interessante: gli orchi, ritratti spesso come il nemico nella tradizione del fantasy, sono lo specchio dell’emarginazione sociale della comunità afroamericana, sottoposta ai continui abusi della polizia e relegata alle professioni più “umili”; mentre gli elfi, da sempre l’incarnazione della nobiltà più eterea, sono il corrispettivo della maggioranza bianca e WASP, detentrice del potere e del denaro. Nel suo primo “atto”, insomma, Bright rivela gradualmente le molteplici sfaccettature che lo caratterizzano, dando corpo a un buddy cop dove Ayer rievoca le sue radici poliziesche, con sfumature da Training Day o End of Watch, e un umorismo che rimanda inevitabilmente ad Arma letale. Ma quando la trama comincia a dipanarsi, il film perde carattere. La sua identità grezza, da fantasy metropolitano con influssi thriller, si smarrisce in una concatenazione di sequenze quasi casuali, dove personaggi e ambientazioni si susseguono in modo artificioso: alcuni snodi narrativi sono francamente illogici, mentre certi comprimari – come la moglie e la figlia di Daryl – vengono accantonati in tutta fretta. Una sorte non meno grama capita ad altri personaggi, non sempre di contorno, come la stessa Tikka e i federali che danno la caccia alla bacchetta, mai sviluppati nelle loro motivazioni e nel loro background narrativo.

Anche l’azione – di cui Ayer è solitamente un valido burattinaio – qui appare troppo caotica e confusa, al punto che non sempre la dinamica spaziale degli scontri fisici o dei conflitti a fuoco risulta chiara. Per sua stessa natura, un prodotto del genere lavora sull’alternanza fra il dramma, la suspense e la commedia, ma il lato più goliardico e cameratesco resta inespresso: l’alchimia tra i due protagonisti (ovviamente giocata per contrapposizioni, come quella tra Riggs e Murtaugh) scatta in pochissime circostanze, facendo rimpiangere la brillantezza dei migliori buddy cop contemporanei, come The Nice Guys. Decisamente meglio, in confronto, il quadro di una Los Angeles meno fantasy di quel che si crede, ritratta da Ayer con la consueta attenzione per gli scorci suburbani e le giungle d’asfalto. Peccato che non ci sia una sceneggiatura adeguata a sorreggere il suo sguardo ruvido e schietto, ben percepibile anche in questa declinazione fantastica (più che nel precedente Suicide Squad). Bright si ferma sulla soglia del suo vasto potenziale, limitandosi ad accennare ogni metafora politica nella prima parte, per poi correre verso un finale prevedibile che, rifiutando di approfondire la mitologia di questa realtà alternativa, lascia un senso di palese incompiutezza.

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