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Black Mirror, o l’incubo disumanizzante della tecnologia: la recensione della stagione 4

Pubblicato il 15 dicembre 2017 di Lorenzo Pedrazzi

È evidente che Charlie Brooker non ama ripetersi, o che quantomeno è disposto a traghettare la sua preziosa creatura in territori inesplorati: la quarta stagione di Black Mirror espande le ambizioni della stagione precedente, con meno disequilibri e un impegno ancor più cristallino nella varietà dei registri espressivi. Parlare di corruzione made in USA o di pressioni da parte di Netflix non ha alcun senso (soprattutto se si pensa alla ben nota libertà che il colosso dello streaming elargisce ai suoi autori), perché la serie non ha mai perso le sue attitudini critiche o satiriche, ma le ha affinate ulteriormente per farsi più ambigua, persino in storie apparentemente idilliache come l’ormai inflazionata San Junipero. Qualcosa del genere accade anche nei nuovi episodi, dove le eventuali concessioni all’ironia o al romanticismo non nascondono mai un certo disincanto, insieme alla frustrazione per quella forma mentis che la tecnologia di consumo sta imponendo a tutti noi.

Detto in questi termini suona molto retorico, ma Black Mirror non lo è per niente. Brooker, sceneggiatore di tutti gli episodi, non affronta la tecnologia come un pericolo da sventare, ma come un fenomeno inevitabile, quasi fisiologico, con cui è necessario fare i conti nelle diverse sfere della quotidianità, e la cui presenza è data sempre per scontata. Nelle sue trame, la tecnologia è in origine sempre “neutra”, mai dannosa di per sé; la differenza risiede nel rapporto che si intrattiene con essa, e che può essere di adattamento passivo (e allora nascono le distopie, le nevrosi, le paranoie) o di sfruttamento pensante (dov’è la tecnologia stessa ad adattarsi alle nostre esigenze, non il contrario). In questo scarto è rintracciabile il conflitto che permea quasi tutte le puntate della serie, sempre abilissima a lavorare sulla fantascienza nell’accezione che le attribuì lo scrittore Damon Knight: «Una vicenda di esseri umani, con problemi umani, che non potrebbe verificarsi se non nelle circostanze espresse nei precisi assunti speculativi della vicenda stessa». In altre parole, si tratta di vicende umane i cui contrasti sono innescati dagli elementi fantascientifici che punteggiano le trame.

Quest’idea è palese fin dal primo episodio, U.S.S. Callister, ma si riverbera lungo tutta la stagione. Vediamo nel dettaglio le singole puntate, ma vi avverto che ci saranno alcuni spoiler.

U.S.S. CALLISTER

Con i suoi 75 minuti, U.S.S Callister è l’episodio più lungo della stagione, e anche il più ingannevole in sede di marketing: la parodia di Star Trek nasconde infatti una simulazione dove un brillante sviluppatore di videogiochi (l’ottimo Jesse Plemons) imprigiona le copie digitali dei colleghi che gli hanno fatto un torto, tiranneggiandole in quanto Capitano dell’eponima astronave. Il problema, però, è che le suddette “copie” sono autocoscienti, e soffrono sia per le angherie del loro aguzzino sia per quello stato di prigionia da cui non sembra esserci scampo. L’ultima arrivata (la Cristin Milioti di How I Met Your Mother e The Wolf of Wall Street) ha però un’idea che potrebbe cambiare la situazione, ed elabora un piano di fuga.

Episodio decisamente beffardo, non solo per l’astuta campagna promozionale. U.S.S. Callister trae in inganno con la sua costruzione empatica dell’outsider, salvo poi rivelarne i segreti più turpi e trasformarlo in antagonista. I segmenti all’interno della simulazione oscillano tra l’umorismo paradossale e l’ansia terrificante, spiazzando ulteriormente con la transizione dalla parodia al dramma: i cliché della space opera, tanto dileggiati all’inizio, divengono parte integrante del meccanismo narrativo e, nel finale, assumono un valore di serietà. Peccato per un paio di passaggi logici eccessivamente forzati che sfidano la sospensione d’incredulità, ma la puntata resta di altissimo livello, bella tesa e intelligente; anche perché riesce ad affrontare il tema della fuga dalla realtà – con i prodotti dell’immaginario nel ruolo di palliativi – senza alcun tipo di moralismo.

ARKANGEL

Diretta da Jodie Foster, è forse la puntata più “canonica” della stagione, l’unica che non si concede deviazioni tonali o di genere. Arkangel racconta la storia di una madre single che, in apprensione per l’incolumità della figlioletta, le fa impiantare un rivoluzionario dispositivo di controllo genitoriale: attraverso un tablet, la madre può vedere e sentire tutto ciò che percepisce sua figlia, attivando persino una censura visivo-uditiva sulle immagini che scatenano ansia o spavento nella piccola. Gli scompensi psicologici causati da questa “diseducazione” (la bambina, infatti, non ha mai modo di confrontarsi con le sue paure e di superarle) inducono la madre a disattivare il congegno, almeno finché la figlia non diventa adolescente: la tentazione di tenerla d’occhio durante le sue uscite serali, per una madre così protettiva, è troppo forte.

Delicatezza e brutalità si alternano in questo episodio, dove Brooker mette a nudo l’ossessione del parental control e la retorica iperprotettiva del politically correct: privare i bambini di certe esperienze non serve a tenerli al sicuro, ma solo a farli crescere nel dubbio e nel terrore, provocando gravi falle nella costruzione della loro personalità. L’epilogo è un po’ affrettato, ma la durezza del racconto e l’arguzia del soggetto sono indubbie.

CROCODILE

Episodio glaciale sia per l’ambientazione sia per il suo ferreo cinismo, Crocodile comincia da un incidente automobilistico dove perde la vita un incolpevole ciclista. Nell’auto che lo ha investito ci sono un ragazzo e una ragazza (la bravissima Andrea Riseborough) reduci da una nottata in discoteca: lui, che era alla guida, decide di lanciare il corpo nel lago per evitare la galera, e lei – seppur recalcitrante – lo aiuta. Nove anni dopo, la ragazza è diventata una donna di successo, con un figlio e un marito. Il passato torna però a perseguitarla, e la sua vicenda si intreccia con le indagini di un’investigatrice assicurativa che usa uno strumento chiamato recaller, in grado di estrarre e visualizzare i ricordi di un testimone. La spirale di violenza che ne consegue ha effetti molto drammatici.

La regia è curata stavolta da John Hillcoat, lo stesso di The Road e Lawless, mentre la sceneggiatura assume i connotati del giallo: Brooker costruisce un efficace meccanismo narrativo che mette in connessione le vite di due donne attraverso il suddetto recaller, dispositivo rigorosamente low-tech (il monitor sembra uscito dagli anni Ottanta) capace non solo di innescare il conflitto, ma anche di risolverlo. La piega degli eventi è parossistica, forse troppo, ma non c’è dubbio che l’intreccio sia ben strutturato, e che l’episodio abbia il coraggio di spingersi in territori sconvolgenti. La beffa conclusiva rende il tutto ancor più cinico e paradossale.

HANG THE DJ

Sarebbe fin troppo semplice considerare Hang the DJ come il San Junipero di quest’anno, ma per certi aspetti è la verità. Nel futuro immaginato da questo episodio, l’educazione sentimentale di ogni individuo è governata da un “sistema” che assegna i partner e decide la durata di ogni relazione, variando da poche ore (come l’avventura di una notte) a diversi anni (come una storia importante). Alla fine, il sistema trova un partner definitivo con cui accasarsi per tutta la vita. Due ragazzi trascorrono 12 ore insieme nella loro prima esperienza, e poi attraversano varie relazioni prima di ritrovarsi: decidono però di non guardare la scadenza del loro rapporto, allo scopo di viverlo in modo più naturale.

Hang the DJ è strutturato come una commedia romantica (laddove San Junipero adottava invece il registro del melò), e mette in scena la realtà paradossale di un sistema che “simula” le esperienze di coppia, riducendo i legami affettivi a un coacervo di statistiche sulla compatibilità interpersonale. L’idea è brillante, poiché capace di parodiare le dating app e di riflettere su una generazione che, davanti alla scarsità di certezze, è preda di imbarazzi e balbettamenti romantici: il sistema in questione è un metodo rassicurante a cui affidarsi, perché toglie il libero arbitrio, impone un partner e garantisce il risultato finale, all’insegna del terrore della solitudine. La catarsi dell’idillio amoroso, ovviamente sulle note degli Smiths, non è priva di ambiguità: la naturalezza dei rapporti sociali è definitivamente compromessa, se l’unione è comunque frutto di una simulazione. Un ottimo episodio, che riesce a trasmettere l’esigenza della storia d’amore con poche pennellate essenziali.

METALHEAD

Per contrasto, Metalhead è invece l’episodio più breve in assoluto (non solo della stagione, ma di tutta la storia di Black Mirror). Siamo in un futuro post-apocalittico, dove tre sopravvissuti – una donna e due uomini – si allontanano dalla loro comunità per cercare qualcosa in un magazzino, ritrovandosi braccati da uno dei robot quadrupedi che infestano il territorio. Il “cane” uccide i due uomini, e costringe la donna a una lotta disperata per la sopravvivenza.

L’anomalia di questo episodio non risiede soltanto nel tema, ma anche nella costruzione del racconto: non c’è infatti alcun tipo di intreccio, ma solo un brutale inseguimento che ricorda certi b-movie degli anni Novanta, su tutti Screamers. L’inedito utilizzo del bianco e nero garantisce un’atmosfera cupa e desolante, mentre il solido mestiere del regista David Slade (lo stesso di Hard Candy e 30 giorni di buio) allestisce un buon livello di tensione. L’assenza di un contesto narrativo, però, snatura un po’ l’anima della serie: più che una puntata di Black Mirror, pare un episodio di Masters of Science Fiction. Interessante, di contro, la costruzione del dramma emotivo “in assenza”: la protagonista parla con gli amici e i familiari solo attraverso il walkie-talkie, senza mai ricevere alcuna risposta per non rischiare le intercettazioni del robot, aumentando così il senso di solitudine e isolamento.

BLACK MUSEUM

L’episodio più folle, e per certi versi anche il migliore. Una giovane donna (la Letitia Wright di Black Panther e Ready Player One) sta attraversando gli Stati Uniti in automobile, e si ferma nei pressi di una stazione di servizio per ricaricare la batteria solare della sua vettura. A lato della strada c’è l’eponimo Black Museum, un museo che espone oggetti legati a delitti o altri episodi di violenza, e la ragazza decide di visitarlo per ingannare il tempo. Il proprietario la guida in un tour attraverso gli inquietanti cimeli della sua collezione, raccontando le storie legate a tre di essi, che risalgono a quando lavorava come ricercatore di neuroscienze. Tre invenzioni che furono sviluppate sotto la sua supervisione ebbero conseguenze tragiche, ma gli orrori non sono finiti.

Di fatto, Black Museum è un’intera stagione di Black Mirror racchiusa in un unico episodio, soprattutto se consideriamo che le prime due stagioni erano composte da tre puntate. Brooker l’ha paragonato agli speciali di Halloween de I Simpson, ma in questo caso c’è una cornice narrativa – la visita della ragazza al museo – che si rivela fondamentale nell’epilogo. Le tre storie sono piacevolmente assurde, spiazzanti e crudeli, al punto da sfociare talvolta nel grottesco e nel pulp: un horror della psiche, più che del sangue e delle viscere. Folle, perché gioca sulle svolte improvvise, sull’accumulo delle trovate e sull’induzione del disgusto (psicologico ed emotivo, più che fisiologico) nello spettatore, il quale non sa mai cosa aspettarsi da questo festival degli orrori. È anche la puntata più autoreferenziale: il museo è ricco di easter egg relativi agli episodi precedenti, mentre i dialoghi citano la tecnologia di San Junipero. Come a dire che le storie di Black Mirror si svolgono tutte nel medesimo universo narrativo.

Insomma, la quarta stagione dimostra per l’ennesima volta la permeabilità della fantascienza (e di Black Mirror in particolare) agli altri generi classici, che permettono di variare la qualità dei toni e dei registri. Ne risulta uno spettacolo satirico dove gli effetti della tecnologia cambiano a seconda dell’operatore, e Crocodile è esemplare in tal senso. Nelle mani sbagliate – o con un approccio passivo – essa diventa infatti uno strumento di graduale disumanizzazione: il tramonto dell’utopia positivista, in uno degli show più caustici e rilevanti del decennio.

Voto: ★★★★ 1/2

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