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Sono cambiate tante cose negli ultimi trentuno anni per Spike Lee. Gli Oscar – due nomination e uno alla carriera, nel 2016 – il successo, i videoclip girati per tanti di quegli artisti che in mezzo c’è finito pure Eros Ramazzotti. Una quantità di tempo sufficiente per tornare indietro, agli esordi, e riprendere ed espandere il suo lavoro di debutto. Nel 1986 esce il suo primo, vero lungometraggio: She’s Gotta Have It (qui in Italia Lola Darling), un film provocatorio a partire dal titolo, da cinema per spettatori nascosti dietro un quotidiano. Da qualche giorno è sbarcato su Netflix il remake omonimo in formato televisivo, uno She’s Gotta Have It in dieci puntate che racconta la stessa storia ai giorni nostri. Anche se quella donna si chiama ora Nola Darling, non Lola come nella versione italiana del film dell’86. Vai a sapere perché da noi le cambiarono l’iniziale.
Nola è una pittrice di Brooklyn, ha lo sguardo ipnotico della bellissima DeWanda Wise, frequenta tre uomini diversi. Nel senso di molto diversi. Come per il suo alter ego del grande schermo anni 80 (interpretato da Tracy Camilla Johns), il trittico è formato da un rispettabile uomo d’affari molto protettivo, ma impegnato anche lui in un’altra relazione, da un modello super-narcisista insopportabile e da un ciclista hipster che si veste come un super-eroe fallito che ha appena fatto un frontale con il furgone del guardaroba di Mr. T dell’A-Team. Tre stereotipi viventi di maschio moderno, che parlano spesso in camera bucando la quarta parete, come Frank Underwood o Pippo Franco, perché ognuno qui ha da dire quello che Nola rappresenta per lui. Loro, la gente per strada che le fa proposte volgari, chiunque.
E per quanto il tutto sia voluto al punto da risultare quasi comico, all’inizio She’s Gotta Have It sembra ottenere l’effetto contrario rispetto alle proprie intenzioni. Nola è una donna forte, sessualmente libera, indipendente, che non si lascia condizionare o reprimere dagli uomini che frequenta, prendendo da ciascuno quello che le piace di più. La natura di macchiette dei tre spasimanti rischia però di ribaltare la prospettiva, e trasformare da principio la signorina Darling nella proiezione di quello che ciascuno di loro vede in lei. Tipo Un corpo da reato (One Night at McCool’s), ma senza Liv Tyler che lava le macchine e fa la stronza. Per una serie scritta con un chiaro intento femminista, tra l’altro sceneggiata da alcune donne (come la sorella di Spike, Joie Lee, o Eisa Davis, una con una nomination al Pulitzer in curriculum, tanto per gradire), sembrerebbe un autogol clamoroso. E invece.
Fortunatamente, le cose migliorano infatti già dal secondo dei dieci episodi da poco più di mezz’ora in cui si snoda la serie. Il fulcro del tutto non sono solo Nola, i suoi quadri e il suo letto con le candele sulla testata, ma una serie di temi importanti, sia pur affrontati con il tono apparentemente leggero di questo circo di freak (ma non chiamate così Nola. Ai tempi dell’urban dictionary vuol dire un’altra cosa. S’incazza). Si parla di violenza sulle donne, di accettazione del proprio corpo, dei quartieri inglobati dalla speculazione edilizia: via le famiglie, dentro i nuovi ricchi. Tanto che ogni episodio scorre come un mini-film con gli stessi personaggi, inseguendo una sua storia.
Al centro di tutto, lei, la pittrice che continua a pensare con la sua testa, le sue amiche, Brooklyn, con un amore per il quartiere newyorkese, fatto di inquadrature bellissime, scorci di vita scattati da un turista non per caso come Spike Lee che, pur nato ad Atlanta, lì c’è cresciuto. Ma anche la musica, una colonna sonora pazzesca, che non ti lascia neanche lo sbattimento di cercarti i brani su Internet o smanettando con Shazam, visto che le copertine dei dischi finiscono dritte sullo schermo, insieme ad alcuni testi dei brani, in una specie di collage postmoderno decisamente appropriato, visto che si parla pur sempre di un’artista.
I tempi cambiano. In fretta, anche se per alcuni versi non abbastanza. O per niente. Lola Darling ebbe trentuno anni fa grossi problemi con la censura USA per una scena di sesso, rischiò la X del rating da film porno, fece scalpore perché l’emancipazione femminile non era un tema socialmente accettabile e accettato. Oggi basta un VM14 e puoi imbottire la serie TV di tutti i nudi e il sesso che vuoi, tanto altrove si vede ben altro. E l’emancipazione femminile… no, per quella c’è ancora da fare molta strada, visto che tanti (uomini e non) continuano a considerare le donne degli oggetti e giudicare il modo in cui conducono la propria esistenza sulla base di precetti etico-religiosi scolpiti nella pietra dell’ipocrisia. Dall’alto di un cacchio, come recita il filosofo. Si sogna un’amante disinibita come Nola Darling, a patto però di poterla cambiare, plasmare, redimere, essenzialmente trasformare in suora e santa a modo proprio. E chi se ne frega della sua personalità. Speriamo non servano altri trent’anni, prima che il mondo arrivi a capire certe cose.
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