Non è così raro che un film venga soffocato nella culla, ma il peculiare caso di The Book of Henry sembra aver sortito effetti molto pesanti sulla carriera di Colin Trevorrow, passato fin troppo velocemente dal delizioso Safety Not Guaranteed al successo globale di Jurassic World. Forse il regista californiano – lanciato nell’empireo di Hollywood grazie al supporto di Steven Spielberg e Brad Bird – non era ancora pronto per volare a simili altezze, e infatti le polemiche sul suo conto non sono mai mancate: Trevorrow è stato spesso identificato come l’emblema del male privilege, ma la stampa americana gli ha anche rinfacciato di essere soltanto un mediocre con molta fortuna, aiutato da un establishment che tende ancora a favorire la categoria più privilegiata di tutte, il “maschio bianco”. Quando Lucasfilm gli ha affidato la regia di Star Wars: Episodio IX, il livore nei suoi confronti ha raggiunto livelli insostenibili.
Questo ci riporta a The Book of Henry, film con cui Trevorrow voleva recuperare le sue radici indie prima di passare a Star Wars. La sceneggiatura, scritta dal fumettista e romanziere Gregg Hurwitz, ruota attorno a Henry Carpenter (Jaeden Lieberher), ragazzino di straordinaria intelligenza che bada sia al fratellino Peter (Jacob Tremblay) sia alla madre Susan (Naomi Watts), cameriera in una tavola calda insieme all’amica Sheila (Sarah Silverman). Henry fa quadrare i conti di famiglia, bada a Peter, costruisce invenzioni e dà consigli a Susan, ma c’è qualcosa che lo turba: la sua vicina di casa Christina (Maddie Ziegler) è molestata dal patrigno Glenn Sickelman (Dean Norris), uomo intoccabile perché commissario di polizia, e Henry vuole intervenire per salvarla. Il ragazzino elabora quindi un complicato piano d’azione, che appunta sull’eponimo quaderno nei minimi dettagli. Quando però la situazione prende una svolta inattesa, il compito di salvare Christina spetta a Susan, guidata dalle parole del figlio.
Le aspettative che circondavano The Book of Henry si sono trasformate in una curiosità morbosa quando i critici d’oltreoceano hanno affossato il film senza possibilità di appello, candidandolo idealmente ai prossimi Razzie Awards (dove le nomination – possiamo starne certi – abbonderanno). Rinvigorita da quest’opportunità, la stampa ha trovato una ragione ancor più concreta per odiare Trevorrow, un facile appiglio da cui contestarne il talento: se Safety Not Guaranteed aveva ricevuto buone recensioni, e Jurassic World era stato giudicato quantomeno accettabile, The Book of Henry si è imposto come la dimostrazione pratica di un problema (in precedenza) solo teorico, e l’allontanamento del regista da Episodio IX ne è stata la conseguenza inevitabile. All’improvviso, insomma, anche Lucasfilm ha visto in Trevorrow un cineasta inadeguato, e il flop artistico-finanziario di questa piccola produzione ha corroborato tale giudizio. Ma The Book of Henry è davvero così terribile?
La verità, come spesso accade, sta nel mezzo. Trevorrow non è stato favorito dal male privilege più di molti altri colleghi maschi (diciamo la verità, ci sono numerosi registi uomini che ottengono incarichi di prestigio senza meriti eccezionali), e il suo nuovo film – per quanto claudicante – non è quel disastro assoluto di cui parlano i critici americani. È semplicemente un’opera non riuscita, che spiazza per i suoi bruschi cambi di registro, adottando una struttura tripartita che corrisponde a tre sottogeneri diversi: ne risulta una trama rozzamente suddivisibile in tre parti distinte, ma questi tre “atti” stridono gli uni con gli altri – anche perché il colpo di scena non è adeguatamente preparato – e rischiano di ottenere un effetto straniante sull’attenzione del pubblico.
The Book of Henry, però, è anche un film sin troppo innamorato dei suoi stessi tópoi narrativi, soprattutto nel contrasto fra la maturità dei bambini e l’immaturità dei grandi: un cliché tutto americano che porta spesso a rappresentare i fanciulli come degli adulti in miniatura. Così, se è vero che alcuni critici hanno ritratto Henry come un piccolo prevaricatore sulla pelle di Susan, la realtà è ben più sfumata, e confuta la percezione manichea dei recensori statunitensi. Pur con tutti i suoi limiti, The Book of Henry mette in scena il peso della maturità e dell’intelligenza in un mondo grezzo ed egoista, attribuendo al bambino una saggezza disillusa che si addice ben poco alla sua età, come dimostra un dialogo tra lui e la madre. «La violenza non è la cosa peggiore del mondo» dice Henry in questa scena chiave, e quando Susan gli chiede quale sia la cosa peggiore del mondo, lui risponde: «L’apatia». È quindi un personaggio che sa essere spigoloso e poco simpatico, lontano dal classico ritratto hollywoodiano del “piccolo genio”. Susan, dal canto suo, attraversa una specie di percorso formativo che la porta verso l’emancipazione: la donna impara a non dipendere completamente da suo figlio, che comunque «è solo un bambino», e non sempre le sue idee meritano di essere condivise sul piano morale.
Per fare tutto questo, però, il film semplifica molti passaggi del racconto, scivolando nel ridicolo involontario quando la voce registrata di Henry – durante l’esecuzione del piano – sembra parlare direttamente a Susan, gonfiando l’ennesimo cliché fino al parossismo. Peccato, perché i piccoli Jaeden Lieberher e Jacob Tremblay dimostrano ancora una volta di possedere un talento cristallino (come abbiamo visto in IT e Room), e gli spunti emotivi non mancano di certo. Il problema è che Trevorrow e Hurwitz non individuano un baricentro, ma accumulano molteplici svolte narrative nella speranza che, senza passaggi graduali, trovino da sole un minimo di equilibrio. Non funziona, però non è nemmeno quel leviatano di abusi e inettitudine di cui abbiamo sentito parlare negli ultimi tempi.
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