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Dark, un enigma tra passato e futuro nella nuova serie Netflix: la recensione dei primi episodi

Pubblicato il 24 novembre 2017 di Lorenzo Pedrazzi

La prima serie prodotta in Germania da Netflix dichiara fin da subito le sue ambizioni internazionali, rievocando la tradizione anglosassone del mistery e la ricorrente ossessione feticista per gli anni Ottanta. Già dal titolo, Dark manifesta l’intento di coinvolgere il pubblico in una narrazione (per l’appunto) oscura ed enigmatica, dove i collegamenti di causa-effetto sono indispensabili per tenere a mente l’intreccio: il regista Baran bo Odar e la co-sceneggiatrice Jantje Friese lavorano infatti sull’alternanza fra passato e futuro prossimo, creando un loop ricco di potenzialità narrative, soprattutto in merito ai paradossi temporali.

A tal proposito, non è facile elaborare un giudizio su Dark dopo aver visto soltanto i primi tre episodi (gli unici di cui ho potuto disporre in anteprima), ma l’idea generale dello show risulta piuttosto chiara. Siamo nell’autunno del 2019, a Winden, cittadina immersa nei boschi e sovrastata da una massiccia centrale nucleare, le cui ciminiere si stagliano all’orizzonte da ogni angolazione. Gli abitanti del luogo sono tesi per la scomparsa di Erik Oberndorf, adolescente che si è volatilizzato senza lasciare tracce: le ricerche, guidate dal capo della polizia Ulrich Nielsen, non hanno portato a nulla. Tra i compagni di scuola di Erik c’è Jonas Kahnwald, in terapia dopo il recente suicidio di suo padre, che ha lasciato dietro di sé molti quesiti irrisolti: in primo luogo una misteriosa lettera che non può essere aperta prima del 4 novembre. La famiglia Kahnwald e la famiglia Nielsen sono legate da diversi rapporti sentimentali (Ulrich, ad esempio, tradisce sua moglie con Hannah, madre di Jonas), ma la situazione si fa ancora più intricata quando un altro ragazzino scompare nel nulla, e qualcuno sostiene che i drammi del passato stiano per ripetersi. 33 anni prima, infatti, il fratello minore di Ulrich sparì in circostanze altrettanto misteriose, e i due casi potrebbero essere correlati.

Rivelare qualcos’altro significherebbe addentrarsi negli spoiler, quindi preferisco limitarmi a questa sintesi molto generica, utile per restituire una vaga idea della trama. Nei primi tre episodi c’è ovviamente molto di più, anche perché la terza puntata introduce un parallelismo temporale fra il passato e il futuro prossimo (cioè il presente della serie, l’autunno del 2019), ponendo le basi per la comprensione del quadro completo. Di fatto, Odar e Friese ripropongono un concetto di temporalità circolare che accomuna Dark ad alcuni esponenti della fantascienza contemporanea – spesso indipendente – come Donnie Darko, Primer, Los Cronocrímenes e Arrival, dove la chiave interpretativa è rintracciabile proprio nei legami di causa-effetto. L’intreccio esercita quindi il suo fascino con gli stessi mezzi dei film sopracitati, non così distanti dal magnetismo di Ai confini della realtà o di autori letterari come Richard Matheson: davanti all’inspiegabile, il pubblico vuole scoprire quale direzione prenderà la storia, e se gli autori riusciranno a sbrogliare la matassa in un epilogo coerente.

La trama di Dark potrebbe rivelarsi meno contorta di quanto sembri, ma è indubbio che l’accumulo di personaggi – suddivisi su due piani temporali – possa generare un po’ di confusione, al punto da spingere Odar ad adottare una soluzione didascalica per agevolare la trasparenza dei parallelismi. Si accusa un po’ di fatica nella messa in scena di questo enigma, come se il regista calcasse troppo la mano sui cliché rappresentativi del mistery: panoramiche a volo d’uccello sul paesaggio, musiche grevi di accompagnamento, toni lividi o cupi… insomma, un campionario di espedienti fin troppo scolastici, nonostante la fotografia sia di ottima fattura, e alcune inquadrature siano molto suggestive. Traspare la volontà di offrire un prodotto iconico, memore di altre serie coeve – più The OA che Stranger Things, nonostante le apparenze – e desideroso d’imporsi come nuovo cult, dove persino l’impermeabile giallo indossato da Jonas sembra voler rievocare la tradizione degli horror (Milo e IT, per citarne un paio).

Le idee però non mancano, soprattutto sul piano visivo: gli stessi riferimenti agli anni Ottanta hanno ben poco di nostalgico, ma portano sulle spalle il peso di una memoria esausta e kitsch, i cui accesi cromatismi stridono con la realtà di Winden. L’estetica low-tech degli elementi fantascientifici, inoltre, attribuisce alla serie una patina indie che risulta intrigante, soprattutto perché non viene mai eccessivamente sbandierata come un tratto distintivo, ma resta confinata in alcune scene chiave. Resta da vedere se gli autori tradiranno la fiducia del pubblico con soluzioni comode e facili, o se invece sapranno chiudere il cerchio – anche in termini di loop temporale – con la giusta coerenza. L’uscita della serie su Netflix il prossimo 1 dicembre aiuterà a chiarire le idee.

Voto: ★★★

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