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Wonder Wheel convince sotto ogni punto di vista, la recensione del nuovo film di Woody Allen #NYFF55

Pubblicato il 13 ottobre 2017 di Redazione

Recensione a cura di Adriano Ercolani

Il ritorno al passato è spesso stato per Woody Allen il modo di celebrare un’era iconica e impossibile da recuperare. Gli anni ‘20 di Ombre e nebbia o i ‘30 di Radio Days rappresentano per l’autore newyorkese un momento di confronto con le influenze estetiche e contenutistiche che tali epoche hanno avuto sul suo cinema. Con il suo nuovo Wonder Wheel il cineasta torna agli anni ‘50 per uno degli esperimenti più arditi da lui tentati negli ultimi anni, e cioè (ri)portare al cinema i grandi commediografi di quell’epoca, filtrandoli attraverso la sua visione personale. Nel dramma familiare al centro della storia fin dalle prime scene si percepiscono gli echi ad esempio di Arthur Miller e soprattutto Tennessee Williams, in particolar modo Un tram che si chiama desiderio, di cui Wonder Wheel è esplicito omaggio.

Supportato dal talento espressionista di un grande direttore della fotografia come Vittorio Storaro, Allen sceglie uno stile di regia capace di rinchiude i personaggi dentro interni che diventano veri e propri set teatrali, con gli esterni molto spesso a fungere da quinte. Le dominanti cromatiche che scandiscono tutta la prima parte del film aumentano il senso di finzione, incorniciano le figure e in qualche modo le costringono in spazi ben precisi, impossibili da oltrepassare. Man mano che la storia si dipana la macchina da presa inizia a concedere più spazio agli attori, inizia a muoversi suadente nel seguirne le azioni, ed ecco che Wonder Wheel diventa una commistione riuscita di teatro filmato e cinema. Quando poi la sottotrama noir diventa l’elemento portante della narrazione, Allen e Storaro tornano a caricare di colore soffocante le inquadrature, senza però tornare alla stasi in cui la macchina da presa era costretta all’inizio del film. Ed ecco che allora Wonder Wheel elle sue ultime scene diventa un ibrido affascinante e ipnotico, dove entrambe le nature che lo compongono si fondono e insieme si combattono. Il risultato è spiazzante e ammirevole, elegante e dolente.

Come sempre Woody Allen si dimostra un direttore di attori fuori dal comune, e le performance di Justin Timberlake, Juno Temple e soprattutto del “redivivo” Jim Belushi lo dimostrano. Questa volta però l’autore ci mette qualcosa in più, e cioè un’enorme lucidità nello scegliere la sua tragica e comune eroina, la sua Blanche DuBois, tanto per tornare al capolavoro di Williams. Poche attrici come Kate Winslet hanno saputo in questi anni dare corpo e profondità drammatica a donne comuni, dilaniate dalla frustrazione e dai rimpianti. Allen la incastona nel personaggio di Ginny prima con dolcezza e verità, poi pian piano le lascia esplorare il lato più oscuro e disperato elevandola a figura tragica. In una sequenza di enorme spessore emotivo la donna diventa anche, in filigrana, Norma Desmond, l’inquietante e indimenticabile “chimera” di Viale del tramonto. Merito del colpo di genio di Allen, assolutamente, ma anche della grandezza d’attrice che appartiene alla Winslet. Come anni fa il regista aveva saputo sfruttare l’eleganza infuocata di Cate Blanchett in Blue Jasmine, questa volta con un’operazione simile e per certi versi opposta sfrutta l’irruenza terrena della Winslet, che lo ripaga con un’interpretazione eccellente.

Wonder Wheel conferma che ogni tanto Woody Allen ama ancora prendersi dei rischi, confrontarsi con archetipi della cultura americana, rivisitarli in maniera “classica” ma anche personale. Il suo nuovo film rappresenta veramente qualcosa di diverso rispetto a quanto ci ha proposto in tempi recenti: un’opera spiazzante che, a prescindere quasi dalla stessa sorpresa, convince sotto ogni punto di vista.

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