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Thor: Ragnarok – Taika Waititi è l’arma vincente del nuovo film Marvel: la recensione

Pubblicato il 20 ottobre 2017 di Lorenzo Pedrazzi

C’è qualcosa di piacevolmente surreale nel fatto che Taika Waititi – l’estroso kiwi di What We Do in the Shadows e The Hunt for the Wilderpeople – abbia diretto un blockbuster hollywoodiano. Districarsi fra le linee guida dei Marvel Studios non è semplice per nessuno, soprattutto per un regista abituato a ben altre dimensioni produttive, ma il suo matrimonio con Thor: Ragnarok trova la felicità proprio nei contrasti di senso, dimostrando che l’industria può realmente giovarsi di un talento fresco e indipendente come il suo, se gli lascia un minimo di libertà. È capitato anche con Joss Whedon, Shane Black e James Gunn, ma Waititi, al contrario di loro, era completamente estraneo ai meccanismi hollywoodiani, e ha dovuto affrettarsi per trovare una soluzione arguta: adattare la sua identità creativa alle esigenze del cinecomic, plasmandolo in una visione stralunata e giocosa che, ancora una volta, attribuisce un valore sincero al cinema della attrazioni.

La drammaticità apocalittica del Ragnarok stride con questo approccio, ma il film di Waititi compie il passaggio definitivo dalla mitologia norrena a quella dell’universo Marvel, che ormai possiede una sua identità precisa, autonoma dalle fonti originali. La rielaborazione del mito scandinavo è solo una delle tante sfaccettature della cultura pop, che tutto rimedia e trasfigura: in questo caso, il Ragnarok è funzionale al percorso formativo di Thor, la cui ultima tappa corrisponde all’accettazione dei suoi doveri regali, ovvero la responsabilità verso un intero popolo che conta molto di più del regno in cui vive. Come nel primo film di Kenneth Branagh, anche stavolta il “rito di transizione” è un esilio forzato, durante il quale l’eroe affronta prove a difficoltà crescente per acquisire maggiore consapevolezza di sé. È qui che Thor: Ragnarok si apre alla contaminazione con Planet Hulk, spingendo il film in una direzione del tutto nuova per la saga del Tonante: i codici narrativi, infatti, contaminano il fantasy con il sottogenere del planetary romance, pur senza sfociare nella space opera di Guardiani della Galassia.

Mutano i colori, variano le musiche. Il pianeta Sakaar, dove Thor (Chris Hemsworth) ritrova Hulk (Mark Ruffalo) nell’arena dei gladiatori, è una fantasiosa discarica che il Gran Maestro (Jeff Goldblum) ha riplasmato come una città futuristica, caotica e variopinta: l’ambiente ideale per l’ottima soundtrack elettronica di Mark Mothersbaugh, forse la prima realmente riconoscibile – tema degli Avengers a parte – fra le musiche originali del Marvel Cinematic Universe. In effetti, Ragnarok gioca sull’effetto nostalgia, cavalcando l’ormai noto contraccolpo culturale degli anni Ottanta e l’ovvia nostalgia dei 30/40enni di oggi, affezionati ai vecchi arcade e ai film d’avventura di quel periodo. I colori e le geometrie ci riportano subito laggiù, nei territori dell’infanzia, ma con una consapevolezza del mezzo spettacolare che rispecchia gli attuali cinecomic Marvel: il dinamismo delle scene d’azione punta sulla varietà degli scontri e degli avversari, anche per merito di un ricco cast di personaggi che sanno imporsi con poche battute, come Valchiria (Tessa Thompson), Skurge (Karl Urban) e lo stesso Gran Maestro. Dal canto suo, la caratterizzazione di Hela non ha un grande spessore, ma la Dea della Morte si salva grazie alla prova di Cate Blanchett, villain ammaliante e sarcastica che emana un senso potere in ogni singolo sguardo. Anche Tom Hiddleston cerca di mitigare il suo Loki con una performance in sottrazione, ma il Dio dell’Inganno è ormai ridotto a simpatica macchietta, lontano dall’ambiguità diabolica che traspariva nei film precedenti.

Il focus si concentra quindi su Thor e Bruce Banner / Hulk, poiché in questo riuscito pastiche di generi trova spazio anche il buddy movie, tutto giocato sulla rivalità amichevole tra i due supereroi. Taika Waititi – peraltro interprete dello spassoso Korg – afferma che numerosi dialoghi sono stati improvvisati sul set, e in effetti l’umorismo ha qualcosa di genuino che si riflette sia nelle gag verbali sia nei momenti slapstick, dove il Dio del Tuono abbandona la sua vecchia serietà per diventare un eroe da action comedy: non a caso, il regista ha citato film come Grosso guaio a Chinatown, 48 ore e Un biglietto per due come fonti d’ispirazione, in senso più evocativo che letterale. Waititi ha però anche il merito di gestire bene i cambi di tono, soprattutto quando esalta le imprese di un rinnovato Thor con la celebre Immigrant Song dei Led Zeppelin, dimostrando che il suo talento si applica tanto alla commedia quanto alla macchina spettacolare. Alla fine se ne esce sazi ma non frastornati, grazie all’accurato bilanciamento fra i diversi registri e al clima divertito che attraversa tutto il film. Come al solito, occhio alle scene mid- e post-credits: sono due, equamente divise fra la trama orizzontale e l’ironia.

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