Chi l’avrebbe mai detto che Netflix sarebbe diventato il porto franco dei b-movie? Intendiamoci, il catalogo è ben più variegato di così, ma sulla piattaforma c’è spazio anche per quel sottobosco cinematografico “di genere” che un tempo avrebbe puntato solo sull’home video, mentre oggi trova una facile distribuzione internazionale grazie allo streaming. The Babysitter rientra pienamente in questa categoria, anche se il film di McG ha tutta la consapevolezza dei prodotti post-moderni, lontani dalla vera genuinità dei vecchi b-movie: l’umorismo non è involontario, le assurdità sono cercate, mentre il citazionismo diffuso strizza l’occhio al suo target ideale, con cui condivide l’immaginario pop.
Rispetto ad altri tentativi, però, The Babysitter è meno irritante e più compiuto, soprattutto perché non getta fumo negli occhi del pubblico e non cerca di essere ciò che non è. La sceneggiatura di Brian Duffield, pescata dalla blacklist del 2014, ruota attorno al classico nerd che abbiamo visto innumerevoli volte negli ultimi trent’anni: insicuro e tormentato dai bulletti, Cole (Judah Lewis) è un dodicenne che vive nel classico sobborgo middle class della periferia americana, ma i suoi genitori (Leslie Bibb e Ken Marino) non vogliono lasciarlo da solo quando si assentano per rinvigorire il loro matrimonio, e lo affidano alle cure di una babysitter, Bee (Samara Weaving), che sta con lui per tutto il fine settimana. Bee però sa farsi apprezzare: divertente, spiritosa e bellissima, è l’unica amica di Cole insieme alla sua compagna di scuola Melanie (Emily Alyn Lind), e sembra nutrire un sincero affetto per lui. Lo intrattiene, rinforza la sua autostima, lo difende dai bulli… insomma, una specie di sorella maggiore su cui, però, è lecito fantasticare. Cole, ad esempio, si chiede cosa faccia Bee quando lui va a dormire, e Melanie gli consiglia di provare a spiarla: magari invita un ragazzo per fare sesso con lui, o qualcosa del genere. Quando Cole sente aprirsi la porta d’ingresso, esce di soppiatto da camera sua e scopre che Bee sta facendo il gioco della bottiglia insieme ad alcuni amici. La situazione si fa sempre più bollente, finché uno dei partecipanti non viene brutalmente ucciso per praticare un rito satanico: per Cole ha inizio una notte infernale, e uscirne vivo non sarà facile.
La commistione tra horror (poco) e commedia (tanta) avvicina The Babysitter alla tradizione dello splatterstick, dove le scene sanguinolente giocano sul parossismo, sull’esagerazione compiaciuta del gore e su effetti quasi cartooneschi. I vertici di Sam Raimi sono lontani, ma senza dubbio McG confeziona un film godibile che non dura un minuto più del necessario (proprio come i b-movie tradizionali) e non accenna mai a prendersi sul serio. La vicenda si trasforma ben presto in una versione deviata di Mamma ho perso l’aereo, poiché i trucchi elaborati da Cole servono realmente a tenerlo i vita, e il risultato di ogni stratagemma è la morte dei suoi aguzzini: un’avventura formativa che deve moltissimo anche ai cult degli anni Ottanta, ma concepita per un pubblico di teen-ager o di trentenni nostalgici, non di bambini. Il risultato diverte, per quanto McG abbia la mano pesante in certe soluzioni visive. Se alcuni spunti sono giustificati dalla natura scanzonata e adolescenziale del prodotto (come i titoli colorati che accompagnano le svolte della storia), altri sono gratuiti e privi di senso, in particolare l’utilizzo della soggettiva per mostrare l’arrivo di Bee: troppo arbitrario ed estemporaneo, seppur calato in un pastiche che mescola espedienti grafici e tecnici molto diversi tra loro.
La commistione di CGI ed effetti pratici dimostra la doppia anima del film, diviso tra la “vecchia scuola” del cinema horror e l’intrattenimento contemporaneo, ma la netta predilezione per lo sguardo maschile ricorda proprio quei cult di cui si parlava poc’anzi: Bee, infatti, è un tipico sogno maschile, sia per la sua avvenenza sia per la sua complicità e disponibilità. Lo sviluppo della trama suggerisce però un superamento di questa illusione, necessaria a Cole per maturare come giovane uomo, all’interno di un percorso di crescita che lo plasma e lo cambia nell’arco di una notte. L’impiego semplice della metonimia scandisce la trama nei suoi snodi narrativi, mentre l’ambiguità di Bee rende incerte le sue azioni fino all’epilogo, valorizzando gli occhioni ammalianti e la performance vivace di Samara Weaving. Alla fine, The Babysitter si rivela un intrattenimento onesto che non eccede in feticismi, ma è furbo nel rievocare l’immaginario pop condiviso dal suo pubblico di riferimento.
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