Mindhunter è la serie più raffinata e innovativa di quest’anno, la recensione

Mindhunter è la serie più raffinata e innovativa di quest’anno, la recensione

Di Redazione SW

Recensione a cura di Michele Monteleone

La storia tra Netflix e David Fincher pare destinata ad essere costellata di successi; infatti, dopo aver dato il via (con due delle più belle puntate mai girate in televisione) ad House of Card, il fiore all’occhiello della piattaforma, Fincher torna con una serie che sembra essere ancora di più la sua minestra. Mindhunter è una serie thriller affidata a uno dei maggiori interpreti del Thriller contemporaneo, il regista di Seven, Zodiac, Uomini che odiano le donne e L’amore bugiardo, che torna ancora una volta sul luogo del delitto e, proprio come un serial killer che impara dai suoi precedenti crimini, mantiene intatto il suo modus operandi, trovando però spazi per l’evoluzione dello stesso.

Proprio in quest’ottica vorrei fare un avvertimento a chi si starà per mettere comodo sul divano per godersi la serie una puntata dopo l’altra: in primis, non state troppo comodi, Mindhunter è una serie che vi culla con un ritmo pacato, solo per turbarvi ancora di più con le sue accelerazioni e le sue note stonate. Seconda cosa, sappiate che non è (come penso che qualcuno possa pensare) nulla che somigli a Seven, siamo più dalle parti di Zodiac se proprio volete un paragone con le opere precedenti di Fincher. Infatti, se la maggior parte di voi guarderà la serie aspettandosi il classico “Chi è stato?”, che è il centro narrativo della maggior parte dei crime, rimarrà deluso o per lo meno sconcertato, da quanto invece Mindhunter sia esclusivamente interessato al “Perché l’ha fatto”. Questa prima stagione ci presenta una storia di origini: l’origine del profiling, dello studio delle scienze comportamentali applicate all’investigazione criminale, ma anche, in senso più lato, una ricerca metodologica dell’origine del male.
Nelle prime due puntate, che procedono con passo leggero, quasi disinteressate al fatto di dover essere il traino dell’intera serie, c’è una frase, cruda e destabilizzante che rompe la monotonia della narrazione e che sarà il pilota di quelle note stonate nel ritmo lento con cui procede la storia che dicevamo prima. “What does a broomstick in the ass of a dirt-poor single mom mean?” è la frase ed è uno sconcertato poliziotto a pronunciarla chiedendo, ai due agenti dell’FBI protagonisti della serie, spiegazioni. Chiede il perché e quasi passa in secondo piano scoprire chi è stato l’assassino, per la mente del poliziotto, che compartimenta il suo piccolo angolo di mondo in una chiara dicotomia tra bene e male, un atto tanto crudele e apparentemente inumano, perpetrato nei confronti di una vittima indifesa è semplicemente inspiegabile. Una domanda che, insieme a un’affermazione dell’agente Holden Ford, che dice “When we know who the criminal is, we can understand what set him off” sono forse le due migliori campane da ascoltare per capire davvero di cosa parla Mindhunter. La cosa davvero interessante della scrittura della serie è il modo con cui avvia questa costante ricerca dei perché e di come, lentamente, quasi subdolamente, utilizza lo stesso metodo di inchiesta applicato dagli agenti alle menti criminali, sugli stessi protagonisti “positivi” della serie. La coppia di agenti formata da Holden Ford (interpretato da Jonathan Groff) e Bill Tench (Holt McCallany), viene vivisezionata, fatta a pezzi e osservata al microscopio da Joe Penhall, l’autore della serie. Costruisce per entrambi archi narrativi complessi e profondi che scavano nelle psicologie di entrambi e legano a doppio filo la loro visione del mondo a quella dello spettatore e, ancora, la fanno influenzare da quella malata e distorta degli uomini che intervistano nel loro studio delle menti criminali. Fino quasi a distorcere la nostra visione insieme alla loro, in un continuo gioco a occhieggiare in quell’abisso nicciano che sono le menti degli assassini. Le reazioni all’orrore (mai mostrato, sempre raccontato) degli omicidi su cui indagano, ha evidenti ripercussioni su entrambi. Su Holden esercita un fascino corrotto e penetra attraverso la corazza dei suoi banali completi da impiegato governativo, armature fatte di rispettabilità e rigore da opporre alla follia omicidia dei serial killer, ma che falliscono nello scopo di ricordargli quanto lui sia diverso e diventano invece quasi un suo feticcio. E su Tench, il vecchio e duro poliziotto che pensa di avere abbastanza esperienza e pelo sullo stomaco da affrontare qualunque cosa gli metteranno difronte quei mostri, che finisce per scoprire che lo spiraglio sul male che stanno aprendo insieme al collega, lo destabilizza e lo scuote in modi che non si sarebbe aspettato, deteriorando il rapporto già traballante che ha con la moglie e con il figlio autistico, ma che soprattutto lo mette a confronto con una fragilità emotiva per lui insospettabile all’inizio dell’avventura.
Mindhunter è una serie guidata dall’agire e dall’evolvere dei personaggi, non è una corsa a inseguire colpi di scena (non ce ne sono) o improvvise svolte narrative (ugualmente assenti) è un lento mutare, una lunga presa di coscienza dell’origine delle pulsioni più estreme e di quanto il male possa fiorire nei luoghi e negli individui più banali.

Ho già letto qualche critica al ritmo delle prime puntate e, seppure la capisco, non la giustifico. La spiegazione è semplice: per me la serie vive della sua lunga e continua narrativa ed è indivisibile in capitoli a sé stanti. Ho sentito parlare di Pilot, ma trovo che il termine sia assolutamente inutile per definire l’inizio di Mindhunter e che debba cominciare a sparire dal nostro vocabolario quando ci troviamo davanti a una serie tv realizzata per piattaforme di binge watching come Netflix. Per spiegare il mio punto, prendiamo in esame il ruolo che ha Holden, il protagonista della serie, nelle prime due puntate: è meno dinamico e ha meno battute memorabili del suo vecchio e più scafato collega. È meno intelligente e affascinate della sua ragazza che, in poche battute, ce lo rivela come un uomo scarsamente attivo e poco emozionante. Viene decisamente schiacciato dalla figura di Edmund Kemper, il primo serial killer che intervista. Eppure… eppure è così che deve essere presentato all’inizio di una lunga epopea di metamorfosi e ci sono piccoli dettagli nella sua persona, nei suoi atteggiamenti, che fanno presagire l’evoluzione che avrà nella serie. In particolare mi ha fatto pensare e mi angosciato una piccola scena, di certo non inedita, ma interessantissima applicata al personaggio, in cui Holden scopre una piccola macchiolina di sangue sul polsino della sua intonsa camicia bianca. La macchia è arrivata lì mentre faceva da negoziatore in un sequestro, l’uomo che teneva in ostaggio una donna, si è fatto saltare la testa e ora Holden si ritrova ad affrontare quello che per lui è un fallimento. L’ossessione con cui cerca di cancellare quella macchia, ora che ho concluso la visione della serie, lo trovo un meraviglioso e raffionatissimo sintomo di qualcosa di più nascosto, di un interruttore che potrebbe far sbocciare, in quell’uomo inquadrato e dedito, un fiore del male. È un indizio piccolissimo, ma raffinato in una proporzione inversa proprio al suo clamore. Il personaggio di Holden dovrà crescere e rivelarsi con un ritmo diverso a quello che ci ha abituato la tv, ma assolutamente perfetto per la maniera con cui Netflix e il binge watching stanno cambiando la tv.
Se una volta gli sceneggiatori dovevano essere centometristi che mettevano tutte le carte in tavola in 20 minuti, ora possono (e secondo me devono) gestire i loro personaggi su lunghi archi narrativi sostenuti proprio dalle abitudini dello spettatore che ora fruisce la serie tutta in una volta (o comunque in lunghe sessioni). È una nuova meravigliosa frontiera che rende ancora più autonoma e indipendente, la scrittura per la televisione, rispetto a quella per il cinema. In questo senso è ancora più interessante l’introduzione del personaggio di Wendy Carr (Interpretata da Anna Torv) che, seppure campeggia in ogni poster della serie (effettivamente giocherà un ruolo centrale nella storia), è completamente assente dai primi due episodi e inizia davvero a far parte della squadra che si occupa di studiare la psicologia dei killer seriali, dalla settima puntata. Pochi se ne renderanno conto, ma la serie di Fincher e Penhall è probabilmente un vero e proprio game changer.

Mindhunter è la serie meglio girata di quest’anno, non solo per merito di Fincher, ma anche degli altri tre registi che si alternano nelle dieci puntate che la compongono. Può vantare anche ottime interpretazione da parte di uno dei casting più azzeccati che io ricordi. A partire da Graff nei panni di Holden con quella sua l’interpretazione volutamente goffa e sottotono, quella distaccata e algida della Torv nei panni della Carr e, finalmente, un McCallany in un ruolo importante in cui può far valere tutta la sua pesante fisicità. Tutte queste cose e la scrittura di Penhall, che scava nel cuore dei suoi personaggi e ne riesce a tratteggiare tutti i limiti e le più piccole insicurezze, fanno di Mindhunter la serie più raffinata e innovativa di quest’anno. Un’innovazione che evita qualunque sensazionalismo in favore di un approccio maturo e sottilmente rivoluzionario alla narrativa seriale.

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