Cinema Interviste

Come nasce Coco: incontro con i creatori del film negli studi della Pixar

Pubblicato il 29 ottobre 2017 di Redazione

Di Adriano Ercolani

Da quando mi sono trasferito negli Stati Uniti sono stato invitato ai Pixar Animation Studios, svariate volte, per mia enorme fortuna. Se visitare quel luogo quasi fuori dal mondo – entrato con pieno diritto nell’immaginario collettivo – non è più una novità, rappresenta comunque una gioia sincera, accompagnata dalla la consapevolezza che passerò una giornata di lavoro proficua e soprattutto emozionante.
Il primo vero momento di eccitazione infatti arriva già quando lo shuttle che mi ha prelevato dall’albergo inizia a percorrere l’Oakland Bay Bridge, destinazione Emeryville. La vista della baia di San Francisco, con i moli della città, l’isola di Alcatraz e ovviamente il Golden Gate, è qualcosa che rimane veramente impresso, soprattutto se la mattinata è nebbiosa. E capita spesso che lo sia.

Superato il cancello in mattoni e ferro battuto che delimita l’accesso ai Pixar Animation Studios il vialetto alberato mi porta ancora una volta sotto l’enorme riproduzione della Lampada e della Luxo Ball, veri e propri simboli per chiunque ami l’animazione. Di foto abbracciato alla palla ne ho fatte a decine negli anni, ma già so che neppure stavolta riuscirò a resistere a farne altre.

La navata principale dello Steve Jobs Building è stata allestita con degli arazzi di diversi colori e murales che pubblicizzano la nuova produzione Coco, il motivo per cui sono venuto. Dopo la solita, abbondante colazione io e gli altri giornalisti veniamo accompagnati in una saletta in fondo alla hall (variazione rispetto al schedule delle precedenti visite, in quanto le proiezioni solitamente si svolgono nell’altro edificio nominato Brooklyn) dove assistiamo al nuovo film diretto da Lee Unkrich.
Finito lo spettacolo di Coco partono le presentazioni del team di artisti e tecnici che hanno lavorato al film.

La terra dei vivi e quella dei morti
I primi a esporci il loro lavoro specifico su Coco sono il production designer Harley Jessup, il direttore della fotografia delle luci Danielle Fenberg e il supervisore dei set Chris Bernardi. A loro il compito di lavorare sull’estetica dei due mondi in cui il film si svolge, il Messico ma anche il luogo immaginario dove le anime risiedono dopo aver lasciato il nostro mondo.
La cosa più importante per noi fin dall’inizio è stata rendere omaggio alla cultura messicana del Giorno dei Morti rimanendo fedeli alle loro tradizioni – esordisce Jessup – Abbiamo fatto ricerche in tutto il Messico, soprattutto nelle città più importanti, per riprodurre al meglio la loro iconografia specifica sul mondo dell’aldilà, ricco di colori e immagini brillanti. Per aumentare il senso di autenticità del mondo fantastico abbiamo scelto di costruire queste città sovrapponendo strati e influenze architettoniche differenti per mostrare il tempo che passa. Dal basso verso l’altro le costruzioni allora sono diventate sempre più moderne e colorate.”
Chris Bernardi invece ha evidenziato il lavoro sul color: “Per sottolineare la differenza tra mondo dei vivi e quello dei morti abbiamo lavorato molto sulle dominanti cromatiche, sabbiose e morbide nel primo caso, sgargianti nel secondo. Abbiamo poi disegnato teschi nascosti nelle luci della città dei morti, magari non sempre visibili dal pubblico ma che vengono poi percepiti a livello inconscio, in modo da aumentare la resa iconica del posto.”
Danielle invece posto l’accento sull’innovazione tecnica che hanno usato per Coco: “Per rendere al meglio tutte le luci e i colori dell’aldilà abbiamo sviluppato un software già adoperato per The Good Dinosaur per la sequenza con le lucciole. Questa innovazione ci ha permesso di lavorare su tutti i punti luce come una sola entità. In un’inquadratura di Coco ci sono addirittura sette milioni di luci, un traguardo che non avevamo mai raggiunto in altri film della Pixar.”

Uno sguardo ravvicinato a Dante e Pepita
I due animali che compaiono in Coco non potrebbero essere più diversi tra loro: a lavorare su questi due personaggi l’animatore Alonzo Martinez e il supervisore Christian Hoffman:
Dante è il cane e il miglior amico di Miguel – inziia Martinez – appartiene a una razza chiamata Xoloitzcuintlu, talmente difficlle da pronunciare che li chiamano semplicemente Cholo. Si tratta di unana razza molto antica cresciuta in Messico e Sud America. Si crede accompagnino le anime nel passaggio tra i due mondi. Per creare Dante abbiamo preso ispirazione da Lilly e il vagabondo e Bolt, ma la grande differenza è che Dante non ha pelo. Quindi abbiamo dovuto lavorare con molta attenzione sulle pieghe della pelle, sulle piccole zone di pelo e sui riflessi della luce sul corpo del cane. All’inizio non era abbastanza buffo e impacciato, Lee Unkrich ci ha chiesto di sviluppare ancora il personaggio, così lo abbiamo reso meno cosciente di ciò che gli succedeva intorno. Un po’ più sgraziato e goffo.” “Il mio lavoro principale è stato sul personaggio di Pepita – ha continuato Hoffman – il portentoso animale mitologico che vedrete nel film dare la caccia a Miguel. Si tratta di un alebrije, un essere appartenente all’immaginario messicano creata dall’artista Pedro Linares negli anni ‘30. Si tratta della combinazione di più animali, posseggono poteri speciali. Ci siamo rifatti soprattutto a quelli che si crede abbia il giaguaro. Pepita nel film è fonte di luce, questo la rende davvero particolare, qualcosa mai visto prima in film della Pixar.”

Portare in vita…gli scheletri!
Molti dei personaggi di Coco sono passati a miglior vita, e nell’iconografia messicana sono rappresentati come scheletri parlanti. A parlarci dell’estetica di questo mondo sono stati l’arti director dei personaggi Daniel Arriaga, il supervisione dell’animazione Gini Santos, il creatore delle ombre Byron Bashford e il direttore tecnico delle simulazioni Emorn Grover.
A iniziare la nuova chiacchierata è Arriaga: “Come rendere interessanti gli scheletri senza che spaventino? La sfida maggiore consisteva nel creare e muovere i loro corpi senza l’uso di muscoli e carne. In alcuni casi, soprattutto per quanto riguarda gli indumenti, abbiamo dovuto barare un po’ e alterare alcune leggi della fisica, altrimenti i vestiti sarebbero caduti sulle ossa degli scheletri con un effetto non appropriato. Ci sono voluti ben tre anni per definire con precisione il modo in cui gli indumenti si poggiano sulle ossa degli scheletri e sbattono contro essi, senza creare forme e movimenti non consoni, o capaci di mettere il pubblico a disagio. Spesso gli spazi vuoti possono risultare poco piacevoli alla vista, così abbiamo “barato” inserendo spazi di aria sotto i vestiti, soprattutto dei personaggi più corpulenti, in modo da farli rimanere nella posizione più piacevole possibile. Con i nostri animatori poi abbiamo fatto migliaia di test per rendere i movimenti credibili, e una volta trovato quello che cercavamo lo abbiamo usato per creare scheletri di tutte le dimensioni e forme possibili.” “Abbiamo iniziato con degli scheletri più stilizzati – continua Gini Santos – volevamo capire quali erano le intenzioni di Lee Unkrich riguardo l’estetica del film. Un momento di confronto importante sono stati i capelli, per distinguere i personaggi sono fondamentali ma eravamo indecisi se renderli naturali o più simili a parrucche. Abbiamo dovuto essere molto attenti anche con trucco, baffi e altre cose che definiscono il volto, perché appena i volti si muovono tutto inizia a distrarre lo spettatore.”
Bashford invece si è focalizzato sul movimento degli arti: “Un altro problema era quanto poter strecciare i corpi degli scheletri senza che perdessero di verosimiglianza. Quanto potevamo allungarli o contorcerli? Una volta trovato l’equilibrio giusto lavorando principalmente sulla spina dorsale abbiamo definito tutte le altre parti dello scheletro. Per il teschio abbiamo scelto invece di essere più rigidi, diminuire la flessibilità dei movimenti per rendere il volto più vicino a quello umano.” A chiudere l’incontro invece è stato Grover: “Abbiamo brevettato un software che potesse dare forma, composizione e sfumature diverse alle ossa degli scheletri, in modo da mostrare principalmente le diverse età delle persone. Il movimento quasi sempre definisce anche la personalità di un personaggio, in particolar modo quando si tratta di animazione. Per Hector ad esempio ci siamo ispirati a Ratzo, il personaggio menomato interpretato da Dustin Hoffman in Un uomo da marciapiede. Dal momento che gli occhi sono lo specchio principale per le emozioni e la vita interiore di un personaggio, abbiamo deciso di adoperare la parte superiore agli occhi per svolgere la stessa mansione, dare vita alle espressioni del volto, dal omento che gli scheletri non hanno sopracciglia…

La famiglia: una storia universale
L’ultimo incontro della giornata si è svolto con Jason katz, il supervisore della storia di Coco, e con il sceneggiatore e co-regista del film Adrian Molina. “Tutto quello che sapevamo quando abbiamo iniziato a pensare a Coco era che doveva essere ambientato in Messico durante il Giorno dei Morti – esordisce Kats – Il nostro tema principale sarebbe stato cosa significa far parte di una famiglia. La prima cosa che abbiamo fatto è stata andare in Messico proprio per Il giorno dei Morti, vivere questa celebrazione degli antenati. Abbiamo imparato molto ad esempio riguardo le offrenda, i doni che si fanno ai defunti per agevolare la loro vita nell’aldilà. La parte più importante è costituita dalle foto, che aiutano a ricordare le esperienze con i propri cari. Poi ci sono i fiori, ritenuti avere proprietà consolatrici. Tutte le preparazioni avvengono durante il giorno, mentre la notte inizia la festa vera e propria con musica, cibo e luci colorate, a celebrare la riunificazione ideale con i morti.”
Molina ha invece preferito concentrarsi sul tema del film: “La storia di Coco è universale, parla di famiglia, eredità e di come ti relazioni ai tuoi cari. Il protagonista Miguel è mosso dalla sua volontà incontenibile di creare musica, è qualcosa che alla Pixar capiamo benissimo, quel desiderio di creare arte. Quando abbiamo mostrato la storia per la prima volta agli altri ragazzi dello Studio hanno capito il suo desiderio ma non lo hanno “sentito”, non gli importava molto. Così abbiamo lavorato sulle sue performance musicali, ma era diventato troppo vicino a un musical. Alla fine abbiamo continuato a sviluppare la storia finché non abbiamo avuto l’idea del rifugio personale di Miguel, dove si nasconde per suonare la musica che ama ma che è bandita dalla sua famiglia. Questo snodo narrativo ci ha permesso di sviluppare alla perfezione sia la sceneggiatura che la vita interiore di Miguel. Abbiamo capito che la voce più profonda del ragazzo doveva essere la sua chitarra. Tutti lo hanno capito e insieme sentito, è stata una grande vittoria per noi e abbiamo potuto proseguire con il secondo atto della storia.”

Questa la giornata passata ai Pixar Animation Studios per la presentazione di Coco, diretto da Lee Unkrich. Il film arriverà nelle sale statunitensi per la festa del Ringraziamento mentre in Italia a dicembre.

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