C’è una traccia di malinconia che pervade Blade Runner 2049, e traspare dagli occhi di Ryan Gosling come una semplice, disillusa presa di coscienza. Il suo Agente K è un individuo senza nome, erede del quasi omonimo protagonista kafkiano, ma il Castello che vede all’orizzonte senza mai poterlo raggiungere è la prospettiva di un’umanità negata, conquistabile solo a caro prezzo, in un futuro ostile che non impara mai dagli errori del passato; al contrario, si limita ad affinarli per continuare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, o dell’uomo sul suo simulacro.
Blade Runner si apre a nuovi orizzonti, ma resta fedele a se stesso, ai suoi codici e alle sue icone. Nel raccogliere una delle eredità più pesanti della storia del cinema, Denis Villeneuve sa bene che Hollywood non ama lasciare spazio all’ambiguità, e che il modello di Philip K. Dick – già parzialmente tradito dall’originale – resta incompatibile con la maggioranza delle grandi produzioni; di conseguenza, il sequel non si limita a suggerire la Verità con visioni o indizi sibillini, ma la dichiara apertamente al culmine di un’indagine che rievoca i classici del noir, una detective story fatta di incontri, di scontri, di piste da seguire e di intuizioni da cogliere, sempre restando al livello “materico” degli oggetti e delle persone. K si mimetizza tra la folla o nella nebbia, cercando la chiave di un mistero che affonda le radici nell’epilogo del primo film. L’espediente narrativo è furbo: un blackout – narrato nel cortometraggio di Shinichiro Watanabe – ha spazzato via tutti gli archivi digitali precedenti al 2022, costringendo K a indagare per le strade, non nell’evanescenza della rete. E questo è un bene, anche perché Villeneuve mette in scena un mondo che va perdendo la sua corporeità: non solo i vecchi cartelloni luminosi, ma enormi ologrammi psichedelici popolano la Los Angeles del 2049, mentre gli spettri di vecchi cantanti infestano i casinò, e una fidanzata incorporea (memore di Her) è il surrogato di una vita sentimentale appagante… o, ancora meglio, un antidoto per la solitudine.
Già, la solitudine. Blade Runner 2049 è attraversato da una sottile – e forse per questo ancor più straziante – solitudine esistenziale, generata dalla consapevolezza della propria natura: K non può vivere una vita normale, e la sua storia d’amore con la dolcissima Joi (Ana de Armas) è tormentata da una passione inespressa, dove l’impossibilità di unire i loro corpi è fonte di perenne frustrazione. La centralità assoluta di questo “eroe” mette quasi in secondo piano la macrotrama che gli ruota attorno, e che pure si articola come un’estensione naturale del primo capitolo. Il “miracolo” di cui parla Dave Bautista all’inizio del film, quando rinfaccia a K la sua cecità, è l’evoluzione della specie artificiale in una forma di vita completa, utopistica, forse destinata a sostituirci nel dominio della Terra se non riconosceremo le sue legittime rivendicazioni di umanità. Mentre nel capolavoro di Ridley Scott la paternità era l’unica forma riconosciuta di creazione, in questo sequel essa si contrappone alla maternità, provocando un cortocircuito fra naturale e artificiale che rende ormai obsoleta la distinzione tra i due concetti: lo stesso Niander Wallace (Jared Leto) è il padre di milioni di vite artificiali, ma nelle sue creazioni c’è una fisicità viscerale, un senso di carnalità che si avvicina più al parto che alla costruzione meccanica.
Villeneuve, insomma, espande il discorso e approfondisce la mitologia, decostruendo l’intreccio per gradi come un buon investigatore. Talvolta si percepisce l’ansia di omaggiare l’originale, al punto che la dilatazione del racconto è persino maggiore: le pause introspettive dettano il passo al film, divise tra panorami distopici e interni soffocanti, dove il talento di Roger Deakins si esprime nell’utilizzo delle dominanti cromatiche (il grigio, il giallo, il blu scuro…) che caratterizzano i singoli ambienti. È un film visivamente raffinato, Blade Runner 2049, privo di soluzioni modaiole o di facili spettacolarizzazioni, anche perché Villeneuve lavora per sottrazione: pur con qualche concessione in più rispetto a Sicario, il cineasta canadese trattiene l’azione, lasciandola esplodere solo in episodi circoscritti ed estremamente controllati. A contare di più è il percorso formativo di K, immersione progressiva nel disincanto e nella perdita. Nemmeno il confronto con Deckard (Harrison Ford) può alleviare la sua condizione: il vecchio cacciatore di replicanti, almeno, ha conosciuto forme di amore più concrete, mentre K è un paria sociale che viene discriminato proprio da quel “sistema” cui servono le sue capacità. Questa solitudine influenza la percezione stessa del film, poiché richiede al pubblico di contribuire con il proprio calore, i propri sentimenti e la propria malinconia. Chi riuscirà a coglierne l’ineluttabilità ed empatizzare con essa, saprà anche sorvolare su certi dialoghi un po’ didascalici e sulla brama di recuperare le atmosfere originarie, obiettivo che peraltro è stato centrato. Se alcune sfumature risultano inevitabilmente derivative, Blade Runner 2049 sa comunque farsi autonomo, ed è qui che la scelta di Denis Villeneuve si rivela vincente: il suo modo di “fare cinema”, a Hollywood, è acuto e ragionato come pochi altri, e si applica persino all’universo preesistente di Blade Runner. Da vero umanista, affezionato a personaggi fragili e sinceri, Villeneuve ripropone qui una fantascienza matura che parla alla testa e al cuore del pubblico, dove èpos e intimismo convivono in armonia.
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