Suburbicon – La recensione del film di George Clooney da #Venezia74

Suburbicon – La recensione del film di George Clooney da #Venezia74

Di Lorenzo Pedrazzi

L’usato sicuro di Joel e Ethan Coen è sempre garanzia di qualità, e fornisce un’ottima base di lavoro per George Clooney e Grant Heslov: quella di Suburbicon è una vecchia sceneggiatura che i due brillanti fratelli non sono mai riusciti a concretizzare, permettendo così al buon Clooney di dirigere la sua opera migliore dai tempi di Good Night and Good Luck. A partire dall’ambientazione – l’America perbenista del 1959, trincerata in una comunità suburbana rigorosamente bianca e middle classSuburbicon rievoca quella tradizione del noir che ha segnato la storia di Hollywood tra gli anni Quaranta e i Cinquanta, ovviamente rielaborandola con notevoli spunti satirici e un certo gusto per il paradosso.

La satira risulta evidente sin dal filmato introduttivo (un finto spot promozionale che celebra i pregi della cittadina), ma è l’andamento ellittico dell’incipit a spiazzare di più: l’introduzione di Gardner Lodge (Matt Damon) e della sua famiglia avviene quasi per caso, in medias res, quando subiscono l’aggressione di due rapinatori che li addormentano con il cloroformio, causando la morte della moglie Rose (Julianne Moore) per assunzione eccessiva della sostanza. Gardner, suo figlio Nicky (Noah Jupe) e sua cognata Margaret (Julianne Moore), gemella omozigote di Rose, devono quindi ricostruirsi una vita, ma Nicky comincia a sospettare che ci sia qualcosa di strano dietro la morte di sua madre. Il coinvolgimento di un investigatore assicurativo (Oscar Isaac) complica la situazione, mentre il quartiere è sconvolto dalle proteste per l’arrivo dei Myers, la prima famiglia afroamericana di Suburbicon, il cui figlio fa subito amicizia con Nicky.

suburbicon-damon

Ancora una volta, il contesto storico riflette l’intolleranza del nostro presente, nonostante il copione originale dei Coen fosse ambientato negli anni Ottanta e giocasse di più sull’ironia. Un lieve humor non manca nella versione di George Clooney e Grant Heslov, ma c’è anche molta rabbia, insieme a una sostanziale diffidenza nei confronti della classe (tuttora) dominante: adulti, bianchi e prevalentemente maschi. Non a caso, Suburbicon assume spesso il punto di vista del piccolo Nicky, la cui purezza è una boccata d’ossigeno nell’odiosa comunità socio-familiare dove vive, sintesi ideale di un’epoca funestata dai soliti spettri del razzismo, del classismo e della misoginia. L’arroganza degli adulti viene punita in un bagno di sangue, proprio mentre all’esterno si consuma l’apocalisse dell’imbecillità umana, e gli unici a conservare la propria dignità sono i reietti, gli oppressi, gli outsider che non hanno alcuna voce in capitolo sul mondo che li circonda. Il piglio straniante di Joel e Ethan Coen emerge però da alcuni piccoli frammenti dialogici, quando i personaggi sembrano incapaci di comunicare tra loro e di assolvere alle più semplici convenzioni sociali.

Così, se l’inadeguatezza dei protagonisti è tipicamente coeniana (come in molti loro film, ci sono personaggi incapaci che fanno scelte terribili), l’impegno “politico” è tutto di Clooney, che mette in scena un’America dove l’intolleranza è quasi endemica: le istituzioni stesse ne sono appesantite fin dalla base, e l’unica soluzione pare essere la resilienza, allenata da una stoica dimostrazione di superiorità morale e intellettuale; la parabola dei Meyers è esemplare in tal senso, e viene premiata da una tenue speranza per il futuro che si palesa nell’ultima inquadratura, quando le nuove generazioni dimostrano di saper valicare barriere e paletti. Resta però un’amara consapevolezza di ciò che avverrà in seguito, e la vicenda di Gardner Lodge coagula in sé una versione deviata del Sogno Americano, laddove il mito del self-made man crolla nella violenza, nella sopraffazione e nell’utopia del guadagno facile. Fra i classici tópoi del noir, quest’ultimo è di certo il più evidente nella follia di Suburbicon, il cui intrigo è giocato su una frode assicurativa come in Double Indemnity di Wilder. Clooney si diverte a citare quel retaggio con trovate visive semplici ma efficaci (l’omicidio mostrato attraverso le ombre), omaggiando al contempo gli stessi Coen nel gusto per il paradosso e per il caso, unico vero angelo vendicatore in un mondo consumato dall’idiozia.

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