Recensione a cura di Adriano Ercolani
Tratto dall’omonimo romanzo di memorie di Luong Ung, il quarto film da regista di Angelina Jolie mette in scena l’odissea della piccola protagonista che in Cambogia venne internata dai Khmer Rossi in un campo di lavoro insieme all’intera famiglia. Solo cinque membri del nucleo sopravvissero agli stenti, alle torture e agli assassinii di massa perpetrati dai soldati.
Partiamo immediatamente con l’affermare che questo è il miglior film della Jolie dietro la macchina da presa, il primo in cui dimostra finalmente un’acquisita maturità nell’idea di messa in scena. Decisa a mostrare l’orrore della dittatura e dei campi di lavoro ma anche la bellezza della Cambogia, la Jolie sceglie di guardare il tutto attraverso gli occhi innocenti della piccola Luong. Di conseguenza l’estetica del film si muove con sorprendente agilità tra il realismo imposto dalla drammaticità del racconto e invece l’eleganza stilizzata, oseremmo dire “poetica” dello sguardo della piccola. Man mano che Luong prende coscienza di ciò che le sta succedendo intorno, ecco che coerentemente anche lo spettacolo diventa sempre più cruento e realistico, fino a culminare in un battaglia tra Khmer ed esercito regolare di fortissimo impatto cinematografico.
Per primo hanno ucciso mio padre è così un film bello da vedere, perfettamente fotografato da Anthony Dod Mantle, ma che allo stesso tempo non risparmia allo spettatore la visione dolorosa della tortura a cui la popolazione cambogiana è stata vittima in quel periodo storico. La Jolie riesce ad evitare qualsiasi retorica nella progressione della storia pur essendo capace di veicolare il messaggio umanitario per cui il film è stato esplicitamente realizzato. Anche se ampiamente superiore alle due ore nella durata, il lungometraggio costringe lo spettatore ai suoi ritmi specifici, certamente non comparabili a quelli del cinema mainstream forse proprio per questo ancora più adatti per raccontare questa vicenda. Per primo hanno ucciso mio padre non è ovviamente un film facile, e non poteva esserlo: costringe lo spettatore a uno sforzo emotivo e di concentrazione che oggi il cinema americano non sembra più richiedere. Tale impegno è però ampiamente ripagato da un prodotto capace di scuotere senza imbonire in maniera superficiale, abile nel mostrare rimanendo però lontano dallo spettacolo gratuito della violenza.
Con il suo film probabilmente più sentito Angelina Jolie ha dimostrato una notevole lucidità di racconto ed esposizione per immagini. Un passo avanti sostanziale nel suo percorso alla ricerca di una voce personale come cineasta. Questa volta ha fatto centro, e nella maniera probabilmente più difficile: fondendo la verità e la bellezza.
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