Philip K. Dick’s Electric Dreams non elude gli errori del passato: la recensione di The Hood Maker

Philip K. Dick’s Electric Dreams non elude gli errori del passato: la recensione di The Hood Maker

Di Lorenzo Pedrazzi

Nonostante la sua vasta produzione romanzesca, gran parte dei film tratti da Philip K. Dick sono basati sulla sua (altrettanto ricca) narrativa breve, composta da gioielli fulminanti che rielaborano paranoie e frustrazioni socio-politiche attorno a un soggetto forte, di grande creatività e inventiva. In tal senso, l’idea di Philip K. Dick’s Electric Dreams appare come l’uovo di Colombo: una serie tv antologica tratta dai racconti dello scrittore americano, dove l’asciuttezza del mediometraggio – ogni episodio si attesta sui 60 minuti scarsi – mira a restituire la secca essenzialità del linguaggio dickiano, evitando i potenziali eccessi delle produzioni lunghe.

La prima puntata è The Hood Maker, ispirata all’omonimo racconto del 1955, noto in italiano come Il fabbricante di cappucci. Torniamo quindi agli albori della carriera di Philip Dick, quando la sua arte si stava progressivamente affinando di pari passo con i primi romanzi, e riviste pulp come Thrilling Wonder Stories, Galaxy, Fantastic Universe e Imagination (che pubblicò proprio The Hood Maker) erano ben felici di accogliere le sue opere brevi. Come spesso accade, lo sceneggiatore Matthew Graham e il regista Julian Jarrold adattano il racconto alla sensibilità mainstream più contemporanea: ci troviamo in un futuro imprecisato – o forse un presente alternativo – dove le radiazioni di una pioggia di meteoriti hanno spazzato via tutta la tecnologia elettronica, mentre una minoranza di esseri umani ha sviluppato abilità telepatiche. Soprannominati “tel” (in originale “teeps”), questi mutanti sono riconoscibili dal marchio rossastro che portano sul viso, e vengono sfruttati dal governo per sondare le menti dei cittadini. Esiste però un agguerrito movimento anti-tel che vuole conservare la segretezza dei propri pensieri, ed è qui che interviene l’agente Ross (Richard Madden), un detective che indaga su questa rete clandestina insieme alla telepate Honor (Holliday Grainger). Qualcuno sta fabbricando dei cappucci che schermano la mente dai poteri dei tel, ma la tensione cresce anche fra gli stessi mutanti, prossimi alla rivolta: in questo contesto, l’indagine di Ross e Honor non diventa solo complicata, ma sfocia anche nel personale.

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Gli inevitabili paragoni con Black Mirror (suggeriti principalmente dal marchio di Channel 4) sono meno calzanti di quanto si potrebbe credere. Quella di Charlie Brooker è una serie nettamente circostanziata nel presente, poiché radicalizza gli effetti della tecnologia odierna sulla nostra vita quotidiana e getta uno sguardo satirico sulle gabbie che ci costruiamo da soli, trasfigurandole in forma distopica e parossistica; Electric Dreams, al contrario, punta a una maggiore universalità, che è propria dei racconti di Philip Dick. I temi da lui affrontati nella sua ricchissima produzione letteraria si riverberano tra passato, presente e futuro, senza mai invecchiare realmente: anche The Hood Maker rientra nel medesimo discorso, e ritrae un mondo dove persino l’ultimo baluardo della privacy – i nostri pensieri, forse l’unica vera forma di libertà – è stato violato. In un’epoca dove la minaccia del terrorismo viene utilizzata come spauracchio per aumentare la sorveglianza e limitare le libertà individuali, The Hood Maker suona quantomai attuale: la fantascienza attinge al presente e ne acuisce le problematiche in veste metaforica, come nella miglior tradizione cine-letteraria. Purtroppo, però, Graham e Jarrold dissipano lo spessore politico del racconto in una rilettura indebolita, che peraltro scivola negli stessi errori delle trasposizioni precedenti. The Hood Maker compie infatti il peccato originale di quasi tutti i film tratti da Philip Dick, in primis Minority Report e Paycheck: conserva soltanto l’idea di fondo – ovvero il soggetto dell’opera di partenza – e ci costruisce sopra una trama più orientata verso l’azione, con un protagonista accattivante che tradisce le imperfezioni dei personaggi dickiani, spesso alquanto sgradevoli.

L’episodio, non a caso, preme sul facile impatto emotivo della storia d’amore tra Ross e Honor, confezionando un intreccio che ha tutte le caratteristiche della narrazione “popolare”: un po’ di intrigo, un po’ di azione, un po’ di romanticismo. Gli accenni alle questioni etiche della sorveglianza psichica sono piuttosto vaghi, mentre il panorama sociale si limita a contrapporre “normali” e “mutanti” in una distopia elementare, dove l’inevitabile discriminazione dei tel non aggiunge nulla di nuovo. Il copione ha una struttura narrativa incerta che si affida fin troppo al “colpo di scena” risolutore, eccessivamente repentino per incidere davvero, ma in compenso l’apparato estetico è suggestivo: l’assenza di dispositivi elettronici contribuisce a stabilire un clima noir atemporale, immerso in una foschia perenne che stinge i colori e non lascia alcuno spazio al calore del sole. È un ambiente sporco e fumoso, memore di Blade Runner ma anche di Life on Mars, che dimostra una qualità formale di alto livello. A tal proposito, la mancata spiegazione del contesto “storico” (rivelato da Richard Madden in un’intervista) ha paradossalmente un effetto benefico sull’atmosfera, che risulta ancor più ovattata e soffocante, mai troppo didascalica.

Peccato che la medesima cura non sia stata applicata alla trasposizione, dove alcuni dei temi più cari a Philip Dick (il controllo e la sorveglianza delle istituzioni, il salto evolutivo che separa l’umanità in due) subiscono una banalizzazione ingiustificata. Si tratta comunque di una serie antologica, quindi il valore di Electric Dreams può variare bruscamente di episodio in episodio: l’adattamento successivo, The Impossible Planet, ci fornirà maggiori indizi sulla direzione dello show.

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Voto: ★★★

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