mother! – La recensione del film di Darren Aronofsky da #Venezia74

mother! – La recensione del film di Darren Aronofsky da #Venezia74

Di Lorenzo Pedrazzi

I film di Darren Aronofsky sono parabole votate all’autodistruzione, dove la spirale di morte è sempre innescata da un’ossessione che viene perseguita fino alla fine, indipendentemente dalla futilità o dalla nobiltà delle intenzioni. Il doloroso filo conduttore che accomuna le sue regie si esprime secondo modalità diverse, flirtando talvolta con i generi ma senza mai abbracciarli del tutto, poiché lo slancio autoriale di Aronofsky – seppure incompiuto – lo porta a caricare di metafore, allegorie e sottotesti quasi tutte le sue storie, senza particolari finezze. Non è certo un regista che duella in punta di fioretto: il suo cinema sa essere brutale, carnale e materico, anche quando vuole atteggiarsi a metafisico (basti pensare a The Fountain e Black Swan).

Nemmeno mother! va tanto per il sottile, ed è evidente fin dalle prime inquadrature che il discorso di Aronofsky punterà in una direzione ben diversa dall’horror, ma non necessariamente incompatibile con esso. Sulla trama, per evitare rivelazioni scottanti, c’è poco da dire: una giovane donna (Jennifer Lawrence) vive in una grande casa isolata nel verde insieme a suo marito (Javier Bardem), scrittore affermato. Lei si sta occupando di restaurare la casa, ma l’arrivo di due misteriosi visitatori (Ed Harris e Michelle Pfeiffer) turba la sua tranquillità: la coppia è infatti piuttosto invadente, ma il marito è felice di averli attorno, e non vuole cacciarli via nemmeno quando la situazione si fa disturbante. Ovviamente è solo l’inizio di un itinerario sempre più oscuro, anche se l’inquietudine aleggia fin dal principio: la si avverte nei martellanti suoni ambientali che fanno sussultare la donna (passi, porte che sbattono, oggetti che cadono…) e negli effetti sonori extradiegetici che forano i timpani come una rasoiata, utili per calarci nel disagio della protagonista. In effetti, Aronofsky mira all’identificazione totale, e ingabbia il volto di Jennifer Lawrence in primi piani molto stetti che non l’abbandonano quasi mai, registrando le sue reazioni di fronte alla crescente invadenza degli ospiti. Uno sguardo interamente votato al suo corpo e al suo volto, come una crudele elegia che si vede costretta ad accompagnarla nell’abisso, senza poter intervenire.

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La sensazione di claustrofobia che se ne ricava è ulteriormente alimentata dalla centralità della casa, unica ambientazione del film: una trappola da cui la protagonista non può (o non vuole) mai uscire, a discapito della sua incolumità e della logica. Ciò che impressiona di più – al punto da oscurare alcuni snodi un po’ inverosimili – è però l’andamento febbricitante della narrazione, l’insistenza esasperata sui rumori, sui primi piani, sull’impossibilità di reagire e sul caos crescente che, nella seconda parte, elimina tutti i punti di riferimento e travolge lo spettatore con una follia distruttiva inarrestabile. Anche i brevi intermezzi “sovrannaturali”, quando la protagonista percepisce i frammenti di una realtà più grande, sono animati dalla stessa irrequietezza. In questi frangenti la simbologia di Aronofsky si rende palese, ed è una concezione relativamente semplice, a tratti quasi elementare, con la sua associazione tra “cuore” e “amore” nel grande sacrificio muliebre. mother!, in effetti, ricava il titolo dall’idea di maternità come creazione e sacrificio, ma alla fine è la paternità ad assumere un ruolo demiurgico: non a caso, il titolo di lavorazione del film era Day 6, giorno in cui Dio creò gli uomini e gli animali secondo la Bibbia. Tutto si riduce quindi a una metafora della creazione, non solo divina ma anche (e forse soprattutto) artistica, dove l’autore e la sua opera si danno in pasto ai fan come il Randy “The Ram” Robinson di The Wrestler e la Nina Sayers di Black Swan. L’attacco diretto alla casa, mito inviolabile tutto americano, è figlio di questo ragionamento: la casa (nell’accezione affettiva del termine home) è il nucleo familiare, la base su cui costruire l’istituzione del matrimonio o qualunque altro legame di coppia, e il suo smembramento equivale a “dare tutto” di se stessi.

Aronofsky sostiene di aver scritto il film in cinque giorni, e forse la stesura di getto non ha giovato al prodotto finale, che mostra alcuni problemi strutturali nella ripetitività dell’invasione: l’apparente gratuità del primo “atto” stride con la maggior coerenza (rispetto alle intenzioni del regista) della seconda metà, quando l’allegoria si fa più chiara e la direzione di mother! diviene più precisa. La mano è pesantissima, come sempre nei film di Aronofsky, e le ambizioni metaforiche rischiano di schiacciarlo in un esercizio compiaciuto che omaggia Rosemary’s Baby e – più o meno volontariamente – altri riferimenti cine-letterari (la macchia di sangue incancellabile de Il fantasma di Canterville, la lampadina insanguinata di Evil Dead…). Resta però una sfida interessante ai nervi dello spettatore, che ne esce stremato, disorientato e satollo, ai limiti del rigetto fisico.

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