Tra le pieghe del passato si nascondono fenomeni poco noti, spesso taciuti dai diretti responsabili per cancellarli dalla Storia, ma che cercano una voce che ne tramandi la memoria e fornisca un doloroso insegnamento per il futuro. Il caso degli Jenisch è esemplare, in tal senso: terza popolazione nomade europea dopo i Rom e i Sinti, gli Jenisch furono vittime di una spaventosa persecuzione in Svizzera dal 1926 al 1974, quando l’associazione Pro-Juventute guidò un programma di eugenetica per il “miglioramento” della specie umana. Mentre i genitori Jenisch venivano istituzionalizzati come malati di mente, i loro bambini subivano interventi di sterilizzazione, elettroshock, privazione del sonno, coma indotto e altre torture, con il fine ultimo di affidarli a famiglie svizzere e sradicare la stessa etnia Jenisch.
Dove cadono le ombre, primo lungometraggio di finzione della documentarista Valentina Pedicini, rievoca proprio questo orrore, sul quale costruisce una trama inquietante e tormentata. Anna (Federica Rosellini) lavora come infermiera presso una casa di cura per anziani, supportata dall’assistente Hans (Josafat Vagni), bambino intrappolato in un corpo adulto. Anna è fredda, rigida e professionale, ma sussulta quando riconosce la nuova ospite dell’istituto: si tratta infatti di Gertrud (Elena Cotta), la dottoressa che 14 anni prima ha sottoposto lei, Hans e altri bambini al programma della Pro-Juventute, torturandoli ripetutamente per prepararli all’affidamento. Gertrud aveva però un rapporto speciale con Anna, vedeva in lei la sua erede, ed è per questo che è tornata a cercarla. La casa di cura si trova nello stesso edificio che un tempo ospitava il programma di eugenetica, e la giovane infermiera ne approfitta per vendicarsi della sua aguzzina, imponendole alcune delle torture che lei stessa aveva subìto. Ma ciò che Anna vuole realmente scoprire è cosa sia successo alla sua amica d’infanzia, Franziska, che teme sia stata sepolta da Gertrud nel giardino dell’istituto.
Ebbene, Valentina Pedicini, Federica Rosellini, Josafat Vagni, Elena Cotta, la sceneggiatrice Francesca Manieri, la produttrice Paola Manga e il produttore Domenico Procacci hanno presentato Dove cadono le ombre alla 74ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia nella sezione Giornate degli Autori, incontrando i giornalisti per parlare del film. La regista ha spiegato anzitutto il significato del titolo: la casa di cura è un luogo dove “cadono le ombre”. Mariella Mehr, la poetessa Jenisch cui l’opera è ispirata e dedicata, raccontava in un suo libro che, come in un racconto che le facevano leggere da bambina dove c’era un personaggio che vendeva la propria ombra al Diavolo, gli Jenisch sono stati costretti a vendere la propria ombra al governo svizzero; il titolo è quindi un omaggio a lei. Valentina Pedicini desiderava “parlare di un episodio storico rimosso”, costringendo sia Anna sia gli spettatori a confrontarsi con esso: “La memoria di Anna viene riattivata, e lei è costretta a immergersi in un abisso senza fine”. Ovviamente non è stato facile documentarsi sull’argomento:
Una delle difficoltà più grandi è che questa storia non solo è stata cancellata, ma ci sono pochissime testimonianze, e pochi vogliono che la vicenda venga riaperta. Non ci sono video, solo testimonianze scritte, ma secretate. La grande sfida – di regia e di scrittura – è stata raccontare visivamente, in un film che parla anche di memoria, qualcosa che non esiste, e che andava ricreato. Questo è il principio che ci ha guidato nella ricerca delle location. Il film è claustrofobico, costringe i bambini in un luogo chiuso. Abbiamo lavorato in un ospedale dismesso, lavorando sugli spazi vuoti e sui corpi per mettere in evidenza queste anime incastrate.
Elena Cotta è stata chiamata a interpretare un personaggio oscuro e complicato, ma l’attrice prova anche pena nei suoi confronti:
Se mi chiedessero cosa ne pensi dei terroristi, io risponderei “mi fanno pena”. La reazione dovrebbe essere più violenta, ma mi fanno pena perché si battono per un progetto irrealizzabile, e ciononostante creano lutti infiniti agli altri e alle loro famiglie. Gertrud, in un certo senso, fa anche lei pena: è fanatica di un’idea. È una nazista che non si rende conto del male che fa, e sotto questo aspetto può anche essere compatita (non assolta). In seguito, nella sua vecchiaia, si riscontrano tanti aspetti umani comprensibilissimi: ad esempio il desiderio di rincontrare la sua bambina, pur avendola sostituita con un’altra ben più mediocre. Si tratta di un personaggio estremamente complesso.
Il dialogo dei corpi è importante nel film, soprattutto fra Anna e Victoria. Federica Rosellini ha quindi dovuto lavorare sul suo fisico:
È importante il rapporto con il corpo, il mio e quello degli anziani che Anna accudisce. Il rapporto con il corpo di Anna è intessuto di piccoli gesti, c’è stata una ricerca particolareggiata sui gesti della quotidianità e del lavoro.
A tal proposito, l’attrice ha lavorato per un mese con le infermiere di una casa di riposo per anziani, in cui ha imparato a maneggiare i loro corpi:
L’attenzione per le mani è stata fondamentale nella costruzione del rapporto col personaggio, che nella prima parte è congelato e silenzioso.
Dal canto suo, Elena Cotta non ha avuto bisogno di compiere lo stesso lavoro:
Non mi sono mai chiesta come sia il lavoro sul corpo, anche se il corpo è fondamentale per esprimersi. Io giudico un attore da come muove i piedi: se hanno il ritmo, la tensione e l’espressività di quello che uno dice, è un attore compiuto. Ho lavorato con doppiatori, parlavano benissimo ma non si muovevano, non avevano espressività. Quando prendo contatto con un personaggio non penso al corpo, quel lavoro mi è connaturato dal clima, dalla situazione… non costruisco mai niente a freddo. Per me è la concentrazione totale di quando inizio a lavorare. Accade tutto in assoluta consequenzialità.
Valentina Pedicini ha scelto Elena Cotta proprio per il suo corpo:
Elena è stata scelta anche per il suo corpo: volevo che un corpo anziano e minuto potesse tenere in scacco i corpi di due ragazzi. C’è un gioco di rimandi fra Anna e Gertrud. Josafat, invece, è l’anima bambina intrappolata in un corpo adulto, e c’è stato un grande lavoro anche sul suo corpo.
Josafat Vagni ne ha parlato nello specifico:
L’approccio su Hans è opposto rispetto a Elena. Hans è un esperimento riuscito, ma non è stato mai adottato: la mostruosità è stata quella di togliere a questi bambini la personalità perché le famiglie li forgiassero come nuovi svizzeri. Hans ha subìto elettroshock, bagni gelati, privazione del sonno, coma autoindotto. Cosa succede a un corpo che subisce tali angherie? Ho letto dichiarazioni di persone che hanno subìto elettroshock in età infantile, e alcuni muscoli si ritirano, il modo di camminare è quello. Hans esiste solo come riflesso di Anna, è solo un involucro. Sono partito dal corpo e ci sono tornato, esattamente quello che Hans non aveva. Per me, a livello fisico è stato un lavoro molto impattante che mi ha fatto entrare nella questione. Ho persino chiesto che nessuno mi parlasse per due settimane per calarmi nel personaggio di Hans.
Francesca Manieri è tornata alla genesi del progetto per parlare del suo coinvolgimento:
Quando Valentina è venuta da me con questa storia, sono rimasta terrorizzata perché non è facile disinnescare il silenzio su questa materia, trattare il rimosso. Con lei si parte sempre da qualcosa di materiale: nonostante i documenti siano stati desecretata per gli Jenisch, nessuno di loro ha mai fatto richiesta. Abbiamo cercato l’archetipo narrativo che sottendesse a una vicenda come questa e la rendesse universale. Oltre agli scritti di Mariella, è stato fondamentale leggere gli scritti di Sigfried, il fondatore dell’eugenetica. Gertrud è la buona madre patria, un nutrimento per i suoi figli, ma è veleno. Anna ha introiettato le strutture di quella dinamica di potere, quindi non è facile per lei liberarsene. È stato difficile raccontare l’opposizione speculare di questi personaggi: il materno negativo e la prole, la patria e le minoranze.
Domenico Procacci si è soffermato sulle potenzialità di Dove cadono le ombre nei confronti del pubblico, dato che il film è uscito oggi nelle sale.
A un produttore viene chiesto di capire come intercettare il pubblico. Ma quello che interessa di più a me è che un produttore cerchi il talento e lo aiuti a esprimersi al meglio, chiaramente portandolo verso un pubblico. Non mi sono posto la domanda “Chi andrà a vedere questo film?”. È più importante capire se in un progetto e chi lo presenta c’è del talento, e in questo caso il mio lavoro è stato facile, poiché il talento di Valentina si era già espresso nei suoi lavori precedenti. È stato facile, dato che Paola Manga conosceva Valentina da più vicino, trovare un consenso forte in Rai Cinema, e si è creata una bella squadra che ha lavorato bene.
Anche Paola Manga si è soffermata sull’argomento:
C’è stata fin dall’inizio una grandissima sintonia con Fandango e Valentina su questo progetto. Io credo che il pubblico sia un sostantivo plurale, e in questa pluralità anche i film “difficili” sono diventati una categoria: tra il pubblico c’è chi vuole essere sfidato, vuole entrare in contatto con un nuovo talento, e non ricevere sempre delle proposte che in fondo soddisfano il narcisismo del già noto e della possibilità di riconoscersi. Sono ottimista perché vedo film con un peso specifico importante che vanno sulle loro gambe e arrivano ovunque. A volte una scarsa considerazione in Italia si trasforma in una grande considerazione altrove… il cinema ha il mondo intero come possibilità di pubblico e di incontri. Quando Valentina arrivò con il suo primo film di finzione, era chiaro che sarebbe stato un progetto di questa portata. Penso che da qui avrà una lunga vita, è già un film che nasce come un grande classico, pur essendo un film nuovo, innovativo e sperimentale.
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