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Ammore e malavita cerca un difficile equilibrio tra sceneggiata, musical, azione e commedia: la recensione

Pubblicato il 27 settembre 2017 di Lorenzo Pedrazzi

Ormai è un’opinione quasi stereotipata, ma non c’è dubbio che i Manetti Bros. siano tra i pochi registi italiani ad avere un preciso immaginario di culto, e che siano anche disposti a rielaborarlo diffusamente nel loro cinema. Sono i figli di un artigianato che si è evoluto nel tempo, eredi dei vecchi mestieranti del poliziottesco e della commedia, affezionati al passato, certo, ma senza essere reazionari, anche perché capaci di usare le nuove tecnologie digitali per sopperire ai limiti produttivi: titoli come Piano 17 e L’arrivo di Wang esprimono ambizioni spettacolari ben superiori al cinema italiano mainstream, eppure impiegano meno risorse di molti film commerciali.

Ammore e malavita prosegue il discorso cominciato nel 2013 con Song’e Napule, ma ne amplifica gli obiettivi e ne moltiplica i riferimenti. I Manetti confezionano infatti un pastiche che intreccia musical, sceneggiata napoletana, commedia e azione, recuperando l’archetipo del criminale (parzialmente) redento dall’amore: Ciro (Giampaolo Morelli) e Rosario (Raiz), amici per la pelle, sono due sicari al soldo di Don Vincenzo Strozzalone (Carlo Buccirosso), boss camorrista che gestisce un proficuo commercio di pesce insieme alla moglie Donna Maria (Claudia Gerini). Stanco di questa vita, Strozzalone approfitta di un fallito attentato alla sua persona per fingersi morto e sparire insieme alla consorte, ma Fatima (Serena Rossi), infermiera di Scampia, scopre l’inganno e viene condannata a morte dal boss. Ciro è incaricato di ucciderla, ma resta di sasso quando la vede: Fatima è infatti il suo grande amore adolescenziale, e il sentimento non si è esaurito. Il sicario decide quindi di proteggerla, anche a costo di tradire il suo migliore amico.

Nonostante la varietà dei loro modelli, i Manetti restano fedeli alle radici culturali del contesto geografico in cui lavorano, trasfigurando il retaggio della sceneggiata nel nuovo millennio: da questo genere ricavano la stilizzazione dei personaggi, i cenni di natura sociale (la visita a Scampia dei turisti americani) e i temi canonici dell’amore, dell’onore, del tradimento e della malavita. L’ombra onnipresente del musical hollywoodiano rende più dinamiche le scene cantate, al punto che Fatima intona addirittura una cover napoletana di What a Feeling per celebrare il suo incontro con Ciro, riappropriandosi di un patrimonio cinematografico che attraversa tutto l’arco del film – Donna Maria, non a caso, è un fervente cinefila – e che ne influenza persino le sfumature drammatiche. L’amicizia virile tra Ciro e Rosario rievoca le bromance del genere gangster (sopratutto orientale), ed è il nucleo emotivo di un film che, paradossalmente, fallisce proprio nella sua svolta romantica: la storia d’amore con Fatima non ha sostanza, non ha carne, e non riesce a trasmettere quel senso di esigenza che la renderebbe “concreta” e credibile. Si avverte, da parte dei registi, una certa difficoltà nel gestire il cast corale (alcuni personaggi scompaiono a lungo prima di ripiombare nella narrazione, Fatima in primis), mentre i numeri musicali faticano a integrarsi nel racconto. C’è poca naturalezza nella transizione dal parlato al cantato, che soffre di una rigidità solo saltuariamente oscurata da qualche buona idea creativa, come la sequenza in cui Carlo Buccirosso canta l’incredulità del suo personaggio (ma non è quello che pensate) dal sigillo di una bara.

È comunque lodevole il tentativo di confezionare un musical d’azione che ritragga Napoli nei suoi scorci meno banali, talvolta notturni, dove il confine tra grottesco e melodramma sfuma in un dialogo divertito tra le due parti: si sorride con simpatia, anche se non tutte le gag appaiono riuscite. Peccato che i limiti tecnici s’intravedano nei momenti più spettacolari (esplosioni e sparatorie), quando Ammore e malavita lotta con se stesso per tenere insieme le sue molteplici “anime” in un prodotto coerente. L’epilogo beffardo è però tipico dei Manetti Bros., memori di Coliandro e dei caper movie: nel loro pot pourri cinematografico c’è spazio anche per un grande colpo e una fuga inattesa, lontana dalla tragicità della sceneggiata napoletana. Non un film riuscito, ma almeno si percepisce il coraggio di giocare con i generi e di rimescolare l’immaginario collettivo.

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