American Vandal, una satira amara e intelligente dei documentari true crime

American Vandal, una satira amara e intelligente dei documentari true crime

Di Lorenzo Pedrazzi

Tesi e controtesi: Netflix ha rilanciato i documentari true crime (serie tv che esplorano casi di cronaca più o meno irrisolti con approccio investigativo) grazie a Making a Murderer e The Keepers, ma ne propone anche la satira definitiva con American Vandal, lanciato in sordina lo scorso 15 settembre e già destinato a diventare un piccolo cult.

Se lo merita, perché i creatori Tony Yacenda e Dan Perrault (autori di sketch per College Humour) e lo showrunner Dan Lagana (Deadbeat) confezionano una parodia che non si limita a deridere il linguaggio delle docu-serie, ma ne rielabora i cliché per metterne a nudo le strategie visivo-narrative, sfiorando al contempo il cuore delicato dell’adolescenza. Non a caso, il (finto) crimine indagato da questo mockumentary ha luogo nel liceo Hanover di Oceanside, tranquilla cittadina sulla costa californiana, dove ben 27 automobili – molte delle quali appartenenti ai professori – vengono deturpate da altrettanti disegni fallici. Chi è il colpevole? I sospetti cadono subito sul diplomando Dylan Maxwell (Jimmy Tato), noto per le sue bravate goliardiche e per lo scarso rendimento scolastico: la sua situazione diventa però ancora più critica quando un compagno di scuola, Alex Trimboli (Calum Worthy), afferma di averlo visto nel parcheggio mentre imbrattava le auto, spingendo il corpo docenti ad accusarlo del fattaccio ed espellerlo dall’istituto. Per Dylan, che si dichiara innocente, si prospetta un’udienza in tribunale e il rischio di dover pagare ben 100 mila dollari di risarcimento danni.

Non tutti, però, credono alla sua colpevolezza. Peter Maldonado (Tyler Alvarez), uno studente che lavorava con lui nel morning show della scuola, decide di girare un documentario investigativo per scoprire la verità, accompagnato dal suo migliore amico Sam Ecklund (Griffin Gluck) e dall’amica Gabi Granger (Camille Hyde); il documentario s’intitola American Vandal, ed è proprio quello che vediamo noi spettatori in un cortocircuito tra realtà e finzione. All’inizio della sua ricerca, Peter mette in discussione la credibilità di Alex come testimone chiave, ma l’indagine si ramifica ben oltre i confini dell’atto vandalico e denuda un groviglio di segreti, livori e inganni che coinvolge tutti, studenti e insegnanti, mentre la verità sembra perennemente sfuggire di mano.

Quella che inizialmente sembra una piccola vicenda concentrata in un pugno di attanti, ben presto si rivela un racconto corale animato da personaggi ricorrenti e riconoscibili, in modo non così diverso da un’altra acclamata serie Netflix, Tredici. Anche qui, infatti, cominciamo a sviluppare simpatie o antipatie per determinati studenti o professori, e siamo portati a coltivare teorie o sospetti a seconda del coinvolgimento, della caratterizzazione e dei potenziali moventi dei vari personaggi, fino a una rivelazione conclusiva che lascia una tenue ombra di mistero. In effetti, American Vandal tende un tranello alla nostra morbosità spettatoriale, prendendosi gioco di tutti quei meccanismi che ci tengono incollati ai documentari true crime o agli show televisivi di cronaca nera: la spettacolarizzazione del mistero si articola per mezzo di sapienti cliffhanger, primi piani “empatici” sui volti degli intervistati e argute soluzioni di montaggio che alimentano la tensione, alternando le riprese di Peter e i filmati “di repertorio”. Il trucco è sottile, al punto che quasi non ce ne accorgiamo. Come nelle migliori parodie, American Vandal ci costringe a soffermarci su un dettaglio o un evento di poco conto (in questo caso un normale atto vandalico) e ci induce a prenderlo dannatamente sul serio, perché in primo luogo è la narrazione stessa a prendersi sul serio. Il divertimento non nasce da gag o battute forzate, ma dall’assurdità surreale della situazione, dall’idiozia dei suoi protagonisti – Dylan in primis – e dallo scarto fra la serietà dell’inchiesta e la demenzialità del soggetto.

La serie lavora sui codici del true crime fin dalla sigla (dove Maldonado e Ecklund compaiono come autori) e li mette in scena con una precisione impressionante, dai movimenti di macchina – rigorosamente a mano – ai buffi stratagemmi grafici per ricostruire non solo il “delitto”, ma anche le sue diramazioni: memorabile, in tal senso, la ricostruzione del percorso della bomboletta di vernice spray durante l’epica festa di Rachel Balducci (Catherine Davis), quasi ipnotica per il clima di suspense crescente che instilla nel fruitore. Yacenda, Perrault e Lagana ri-mediano però anche i codici di altri generi, soprattutto il teen drama, la commedia adolescenziale e il giallo, come si evince sia dalla svolta narrativa che porta alla soluzione dell’enigma (dove il caso e la deduzione giocano un ruolo importante, come spesso accade nei gialli) sia dalla sfumatura drammatica che incupisce lo show negli ultimi episodi. Questo perché, al di là della satira, American Vandal è una riflessione amara sull’influenza della popolarità in età puberale, quando i pochi anni del liceo pretendono di definirti come persona, assegnandoti un ruolo sociale basato sulla tua reputazione e sul tuo intelletto ancora acerbo. Le pressioni degli adulti e il giudizio dei coetanei pesano sullo sviluppo dell’individualità, minando le già fragili certezze di un adolescente in fase di crescita. La competitività del contesto americano non fa che amplificare tale frustrazione, e infatti il documentario di Peter ha conseguenze nefaste su molti suoi compagni, i cui altarini rischiano di rovinarne l’immagine o di pregiudicarne la carriera accademica. Un discorso a parte lo merita invece Dylan, che si ritrova intrappolato in una nomea da cui nessuno, docenti compresi, è disposto a scagionarlo, e che lo condiziona a tal punto da trasformarlo proprio in quella figura di cui l’opinione pubblica parla con disprezzo: un vandalo americano. D’altra parte, è più facile archiviare uno studente come “irrecuperabile” piuttosto che sforzarsi di aiutarlo.

Il disincanto con cui si chiude American Vandal dimostra che la satira può essere ben più amara di qualunque forma drammatica, ma anche più lucida nell’esaminare l’immaginario di cui ci nutriamo, l’ambiente con cui ci rapportiamo e l’epoca storica in cui viviamo.

Voto: ★★★★

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