The Deuce – Recensione in anteprima della serie con James Franco e Maggie Gyllenhaal

The Deuce – Recensione in anteprima della serie con James Franco e Maggie Gyllenhaal

Di Lorenzo Pedrazzi

The Deuce è il nome con cui, tra gli anni Cinquanta e gli Ottanta, era comunemente nota la 42ma Strada di Manhattan, a New York, centro nevralgico delle sale grindhouse e della cultura dell’exploitation. Nel libro Sleazoid Express: A Mind-Twisting Tour Through the Grindhouse Cinema of Times Square (che prende il nome dall’omonimo giornale “ufficiale” del circuito grindhouse newyorkese), Bill Landis e Michelle Clifford descrivono questa zona in modo piuttosto eloquente: “Eri un freak? Non quando mettevi piede nel Deuce. Lì, essere un freak ti avrebbe portato denaro, attenzione, intrattenimento, un ruolo in un film. O magari un pestaggio e una rapina”. In effetti le sale grindhouse ospitavano un’umanità estremamente variegata, composta da “depressi che si nascondevano dal lavoro, sessuomani, gente dei bassifondi in cerca di diversivi a poco prezzo, adolescenti che marinavano la scuola, coppie avventurose, guardoni che le spiavano, fattoni, barboni addormentati [e] borseggiatori”, mentre all’esterno dei cinema erano appostati “spacciatori di bassa categoria, ladruncoli, cocainomani o eroinomani nel mondo dei sogni, prostituti di ogni età, transessuali, truffatori” e persino “star del porno i cui film erano in programmazione nelle sale per adulti sulla promenade in fondo all’isolato”. È la stessa New York che il Travis Bickle di Taxi Driver voleva mondare nel sangue, e che ora ritorna – con un’impressionante accuratezza “filologica” – nella serie tv di David Simon e George Pelecanos, due tra i nomi più prestigiosi dell’attuale panorama televisivo.

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D’altra parte, l’interesse di David Simon per gli oscuri sottomondi della cultura americana è un fatto ben noto. Ex reporter investigativo del Baltimore Sun, Simon ha esplorato il rapporto tra la società, le istituzioni e il traffico della droga in The Wire, uno degli show più osannati nella storia della tv, mentre in Treme ha concentrato l’attenzione sull’eponimo quartiere di New Orleans e sull’impegno dei cittadini per ricostruirsi una vita dopo l’uragano Katrina: la sua poetica, insomma, lo porta ad analizzare in modo schietto e disilluso l’interscambio (o l’assenza di dialogo) tra il potere centrale e la “base” popolare, tra il crimine e le strutture preposte a combatterlo, spesso denunciandone le connivenze. L’indagine sulle radici di un determinato fenomeno (la droga, la corruzione politica…) è sempre contestualizzata in un tessuto storico-sociale che ne asseconda la fioritura, come traspare chiaramente dalla prima stagione di The Deuce: in tal caso, Simon focalizza lo sguardo sulla nascita dell’industria pornografica nella New York degli anni Settanta, ma questo particolare fenomeno è inserito in un contesto ben più ampio, che giustifica la parcellizzazione dei punti di vista e l’impiego di una narrazione corale. Proprio come in The Wire.

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Se è vero che i personaggi di James Franco e Maggie Gyllenhaal guidano il racconto e fungono da punti di connessione, The Deuce non ha un protagonista assoluto, se non il quartiere stesso. Nelle sue strade lerce ma vitali si proiettano film come Il conformista o L’uccello dalle piume di cristallo, mentre i marciapiedi sono battuti giorno e notte da prostitute in abiti succinti, sorvegliate da protettori stilosissimi che seducono le giovani provinciali e poi ne sfruttano l’avvenenza, come accade all’intraprendente Lori (Emily Meade). In questo sottobosco si muove il barista Vincent Martino (James Franco), consapevole di essere nato “dalla parte sbagliata del ponte”, ma doppiamente volenteroso e abituato a lavorare sodo, al contrario di suo fratello gemello Frankie che, invece, accumula debiti su debiti con il gioco d’azzardo. Vincent accetta di gestire un bar a Manhattan per conto del mafioso Rudy Pupilo (Michael Rispoli), e schiera un gruppo di cameriere in body e calze a rete per attirare la clientela. Persino l’ammaliante Abby (Margarita Levieva), ragazza di buona famiglia che ha lasciato l’università per cavarsela da sola, accetta di lavorarci con quell’insolita divisa. Il bar diventa ben presto il crocevia della fauna locale: meretrici, protettori e potenziali clienti si fermano spesso a bere da quelle parti, insieme a piccoli criminali, poliziotti che chiedono bustarelle, spacciatori e persino una giornalista (Nathalie Paul) alla caccia di un’inchiesta sulla prostituzione. In mezzo a loro c’è Candy (Maggie Gyllenhaal), passeggiatrice indipendente – non ha protettori – che attinge al suo spirito imprenditoriale per realizzare se stessa e mantenere suo figlio. Così, mentre Vincent viene coinvolto da Rudy nell’apertura di un bordello mascherato da centro massaggi, Candy entra in contatto con la produzione di film pornografici indipendenti, e comincia a lavorare con il regista Harvey Wasserman (David Krumholtz), arrivando persino a sostituirlo in un’occasione.

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Come si può intuire, Simon e Pelecanos mettono in scena diversi livelli di sfruttamento e reificazione del corpo femminile, vero perno su cui ruota la narrazione: dalle cameriere sexy alla prostituzione, passando per la nascente industria del porno, il corpo viene esposto e commercializzato per soddisfare i desideri maschili, indipendentemente dal fatto che esso diventi un mezzo per ottenere uno scopo (come nel bar di Vincent) o sia l’obiettivo finale della transazione. Accade allora che la mercificazione del sesso tocchi nuove frontiere di vendita e consumo, creando spazi inediti e opportunità lucrative, tra cui le cabine di masturbazione nei sex shop e i centri massaggi riconvertiti a bordelli. The Deuce rievoca la genesi dell’industria pornografica statunitense, certo, ma lo fa in modo anti-didascalico, partendo da lontano e avvicinandosi gradualmente al nucleo della questione: la transizione dalle produzioni indipendenti a quelle mainstream è figlia non solo di un ammorbidimento legislativo, ma anche di una consacrazione artistico-commerciale che sfocia nel successo di Gola profonda, con cui – guarda caso – si chiude la prima stagione della serie. Deriva da qui la legittimazione della pornografia a livello popolare, la sua diffusione e “normalizzazione” su larga scala; quando Candy e Harvey incontrano una bella mogliettina di periferia che guarda sempre i film porno col marito ed è convinta di potervi recitare come attrice, capiscono che la situazione sta realmente cambiando, e che «ogni ora questa cosa fa un passo fuori dall’ombra».

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E le istituzioni? Come al solito, cercano di arginare il fenomeno scendendo a patti con esso. Nel cast corale di The Deuce ci sono anche vari agenti di polizia che, su richiesta dei piani alti, devono ripulire il quartiere dalla feccia, quindi vedono di buon grado l’apertura dei “centri massaggi”: confinare la mercificazione sessuale in ambienti chiusi e controllati (non solo i bordelli, ma anche i sex shop con le loro cabine) significa dare una parvenza di rispettabilità ai marciapiedi della 42ma Strada, attuando un lento ma inesorabile processo di risanamento. Perché, in fondo, il punto è proprio questo: la pornografia si sviluppa in spazi tutelati, chiusi, protetti da occhi indiscreti, e viene distribuita – a trent’anni di distanza dalla rivoluzione di internet – sottobanco e dietro rassicuranti vetri oscurati, legittimandosi nel glamour quando raggiunge le insegne luminose dei cinema newyorkesi. Suona paradossale, ma per le prostitute di The Deuce l’industria pornografica rappresenta una liberazione, poiché devono soltanto simulare ciò che prima facevano davvero, e per di più all’interno di un contesto ben regolato. In effetti, attraverso la ricostruzione dei backstage, la serie rivela l’artificiosità dei film porno e ne viviseziona il “senso” in relazione al pubblico, soprattutto per bocca di Candy; da vera raisonneur, ella sottolinea infatti come queste produzioni vendano una fantasia ben precisa: la totale assenza di inibizioni da parte femminile, un sogno che l’industria coltiva (e induce) in ogni film, data l’assoluta predominanza del male gaze nelle dinamiche rappresentative della pornografia.

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La rappresentazione dell’erotismo, a tal proposito, è quanto di più libero e disinibito si sia mai visto in televisione, a conferma del marchio HBO in termini di libertà espressiva. Se Hollywood ha ormai rinunciato a mettere in scena la sessualità (escluso qualche rarissimo caso patinato), la televisione è stata lesta a occupare quel posto vacante, e The Deuce impiega l’erotismo come uno dei molti strumenti al servizio della narrazione, ottenendo peraltro un notevole contributo da parte degli attori. I rapporti tra i personaggi sono spesso basati sulle relazioni carnali (espresse o inespresse, soddisfatte o insoddisfatte), al punto che il ricatto del desiderio sessuale ha un ruolo primario: lo esercita Abby su Vincent, la giornalista sul suo informatore della polizia, il barista gay sul suo coinquilino, i protettori sulla clientela potenziale, e anche l’industria stessa del porno sulle sue sconfinate platee di spettatori. Simon e Pelecanos illuminano quel momento di transizione in cui il sesso, da affare scabroso e privato, diventa pubblico, sbattuto in faccia come uno strumento promozionale o ricattatorio, una routine da vivere o un privilegio da sognare. Eppure, siamo ancora in anticipo sulla successiva “perdita dell’innocenza” causata dalla scoperta dell’HIV, di cui questi otto episodi lasciano intravedere le prime ombre: al solito, Simon risale alle radici del fenomeno e ne isola le cause scatenanti, di natura sociale e ambientale.

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Raffinato affresco d’epoca, The Deuce è televisione di altissima qualità, votata alla purezza della narrazione più che alla gratuità degli espedienti seriali: l’epilogo, con il suo rifiuto di ogni sensazionalismo, dimostra che gli autori hanno in mente un quadro ampio e sfaccettato, non un racconto fatto di plot twist e cliffhanger. È una narrazione che si espande a macchia d’olio, bilanciata fra numerosi personaggi cui gli sceneggiatori riconoscono sempre la giusta dignità, facendo pesare ogni singola svolta drammatica con sobrietà e distacco, senza concessioni al melodramma. Una qualità che si riflette sia sull’impianto visivo (la ricostruzione storica è impressionante, anche a livello cromatico) sia sull’impegno del cast, la cui credibilità sfiora il verismo, in una babele di accenti e slang che trova casa nella città più cosmopolita del mondo. Quei freak di cui parlavano Bill Landis e Michelle Clifford, alla deriva tra le luci artificiali del Deuce e i primi bagliori dell’alba, non potrebbero ricevere un omaggio migliore di questo.

Voto: ★★★★ 1/2

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