Downsizing – La recensione del film d’apertura di #Venezia74

Downsizing – La recensione del film d’apertura di #Venezia74

Di Lorenzo Pedrazzi

A sessant’anni di distanza da Tre millimetri al giorno, la miniaturizzazione non è più un tragico incidente da cui fuggire, ma una luminosa prospettiva di vita: se Richard Matheson riesaminava questo topos fantascientifico in termini emotivi e psicologici, accrescendo il dramma individuale dell’uomo comune di pari passo con il suo rimpicciolimento fisico, Alexander Payne ci vede invece una gustosa opportunità satirica, trovando nuove angolazioni da cui esprimere la sua poetica agrodolce. Downsizing è un racconto paradossale, più ironico che caustico, che alterna lucidità e indecisione con la stessa frequenza del suo protagonista, emblema di ogni middle man alle prese con i detriti del Sogno Americano. Paul Safranek (Matt Damon) e Audrey Safranek (Kristen Wiig) vivono in un futuro molto prossimo dove la miniaturizzazione degli organismi viventi è divenuta realtà, e rappresenta una soluzione immediata al sovraffollamento della Terra: ridotti a 12 cm di statura, gli esseri umani occupano molto meno spazio, producono molti meno rifiuti e possono permettersi uno stile di vita ben più agiato, poiché il loro denaro aumenta di valore. Per Paul e Audrey, oberati dai debiti, si tratta di una tentazione seducente, soprattutto quando scoprono che due loro amici vivono da nababbi a Leisure Land, una fastosa città per small people che offre ogni genere di comfort. I Safranek decidono quindi di sottoporsi alla procedura, ma non tutto va come previsto, e Paul deve affrontare una situazione completamente nuova.

Era difficile aspettarsi che Alexander Payne si rivolgesse alla fantascienza per proseguire la sua disamina della società americana, ma il genere gli permette indubbiamente di acuire fino al parossismo “molte cose che ci interessano, divertono e disgustano del mondo contemporaneo”, per citare le sue note di regia. Nelle sue mani, la miniaturizzazione assume una sfumatura sociale che ovviamente non aveva nelle passate iterazioni di questo tema (basti pensare a Viaggio allucinante, Salto nel buio, Tesoro mi si sono ristretti i ragazzi, Ant-Man: c’è un corposo retaggio cine-letterario alle spalle dell’argomento), e diviene – perdonate la facile boutade – una lente d’ingrandimento puntata sul nostro presente. Non a caso, la buona volontà dell’iniziativa si perde nei soliti vizi dell’umana fallibilità: il “sottomondo” dei miniaturizzati è afflitto dalle consuete ingiustizie sociali, dalle medesime tensioni politiche e dalla solita diffidenza nei confronti del “diverso”, poiché tra “piccoli” e “grandi” si sviluppa ben presto un rancore reciproco. Payne si diverte a seminare indizi e suggestioni lungo tutta la prima metà del film in maniera quasi casuale, per poi svelarne l’importanza nel corso della narrazione, che si conferma sempre magmatica e mutevole. Downsizing, in effetti, è un film parcellizzato in diversi segmenti narrativi che corrispondono ad altrettante ambientazioni geografiche (il viaggio, vera ossessione del regista, torna anche qui), con vari sistemi di personaggi che si alternano dall’inizio alla fine: alcuni di essi spariscono senza lasciare traccia, altri assumono un valore inatteso, e la sceneggiatura sembra affidarsi a una correlazione d’idee che scaturiscono l’una dall’altra in un flusso continuo, da cui deriva lo spostamento materiale dei personaggi stessi.

Questo non significa che Downsizing corra a briglie sciolte: pur muovendosi in un contesto molto lontano dall’intimismo verista dei suoi film precedenti, Payne ha un’idea precisa di ciò che vuole raccontare, e la esprime soprattutto nei dettagli apparentemente marginali, sia nelle graziose gag umoristiche sia nei paradossi del rapporto tra i due mondi; non a caso, il cineasta imposta il dialogo tra queste dimensioni in modo rigoroso, portandoci al livello delle genti miniaturizzate solo dopo che il protagonista subisce lo stesso trattamento, restando coerente alla scelta del punto di vista. Le maggiori difficoltà, se mai, risiedono nella chiusura della storia, dove le suddette indecisioni giungono al culmine: come si può concludere un film basato sulla concatenazione progressiva delle idee? L’epilogo appare quindi brusco e affrettato, come se avvenisse in medias res. Ciononostante, il discorso è ben chiaro: Payne ridicolizza un ceto medio che non nutre alcun interesse per le grandi battaglie etiche o per il futuro della Terra, ma desidera soltanto macerarsi in un consumismo sempre più esasperato, fatto di lussi a poco prezzo e ostentazione della ricchezza. L’aspetto più brillante di Downsizing sta proprio in questa rilettura satirica del topos fantascientifico, dove persino la soluzione ai problemi del pianeta viene trasfigurata in termini commerciali, e la brama del possesso sfocia addirittura nel sacrificio del corpo, con tutto il mondo che si portava dietro. Forse non è questo l’habitat naturale di Payne, ma vederlo giocare con i cliché dei blockbuster hollywoodiani è piuttosto divertente, soprattutto quando inserisce le musiche giuste al posto giusto e mette in scena una storia d’amore vagamente surreale. Così, nell’universo quasi esclusivamente maschile del regista americano, a emergere è una figura femminile solo in apparenza macchiettistica – la deliziosa Hong Chau di Vizio di forma e Big Little Lies – ma dotata di una profonda umanità che riscatta un’intera specie.

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