Esiste da sempre, nell’immaginario americano, la tendenza a identificare un “mostro” su cui riversare l’odio nazionale, o quantomeno un nemico comune che funga da catalizzatore delle fobie collettive. Questo ruolo è stato occupato – a fasi alterne o contemporaneamente – dai nazisti, dai comunisti, dalla mafia italo-americana e dal terrorismo islamico, ma gli ultimi decenni hanno visto l’ascesa dei cartelli della droga messicani (e talvolta colombiani) in cima alla lista dei “cattivi”, come dimostra la quantità di film e serie tv dedicati a questo fenomeno, da Traffic allo splendido Sicario, passando per Scarface, Narcos, Miami Vice, Le belve, End of Watch e molti altri. L’inquietudine che circonda i cartelli della droga nasce dalla loro identità oscura e sfuggente, ma anche dall’efferatezza delle loro azioni e dal paradosso della loro stessa esistenza: sono gli Stati Uniti, con l’elevata domanda di stupefacenti, ad alimentare il mercato della droga, e quindi la buona salute dei cartelli. Un male apparentemente impossibile da debellare, con cui le istituzioni americane – come insegna Sicario – preferiscono scendere a patti, spostando sempre più in avanti il confine della legalità per giustificare le soluzioni più turpi (come la tortura), ma senza mai sradicarlo del tutto.
Ozark trasferisce il problema dalla cornice nazionale a un livello più intimo e familiare, riaffermando – e se possibile amplificando – le contraddizioni di questo fenomeno in rapporto all’american way of life. Il protagonista Marty Byrde (Jason Bateman) è un consulente finanziario di Chicago che ricicla denaro sporco per il secondo più importante cartello della droga messicano, ma finisce nei guai quando il suo socio Bruce ruba 8 milioni di dollari al loro boss, lo spietato Del (Esai Morales). Quest’ultimo uccide Bruce, la sua compagna Liz e altri complici, ma risparmia l’incolpevole Marty perché incuriosito dalla sua proposta: il consulente finanziario sostiene infatti di aver trovato un luogo migliore di Chicago per riciclare il denaro del cartello, la contea di Ozark nel Missouri, ricca di turisti benestanti e libera dal controllo dell’FBI, quindi adatta a reinvestire i guadagni della droga; Marty dovrà trasferirsi sul posto con la sua famiglia – ovvero la moglie Wendy (Laura Linney), la figlia adolescente Charlotte (Sophia Hublitz) e il figlio minore Jonah (Skylar Gaertner) – e operare da lì, cominciando dagli 8 milioni che Bruce ha rubato. La famiglia Byrde ha pochi giorni per organizzarsi, e l’impatto con Ozark non è dei migliori. Oltre a scontrarsi con un nucleo di redneck e con gli spacciatori locali, Marty scopre che gli affari languono, e riciclare 8 milioni in poco tempo non è uno scherzo. Ciononostante, diventa socio di una tavola calda e acquisisce un’altra attività del luogo, mentre stringe una difficile alleanza con la giovane ma scaltra Ruth (Julia Garner), che aveva tentato di rubargli il denaro: su queste basi, Marty comincia a edificare un piano per garantire la salvezza dei suoi cari, mentre Del e l’FBI gli stanno col fiato sul collo.
I primi cinque episodi – quelli che ho potuto vedere in anteprima – si addentrano gradualmente nel cuore della trama, toccandone il nucleo centrale quando gli affari di Marty entrano in conflitto con la criminalità locale, nella quinta puntata. In tal senso, Ozark ama prendersi i suoi tempi per dipanare l’intreccio: gli ideatori Bill Dubuque e Mark Williams focalizzano l’attenzione sugli effetti psicologici del crimine all’interno di un contesto quotidiano, e ramificano la narrazione in una coralità di sottotrame che, oltre ai Byrde, coinvolgono anche Ruth, i suoi familiari e l’agente Roy Petty (Jason Butler Harner), stabilitosi a Ozark per indagare su Marty. L’approccio critico risulta evidente dalla caratterizzazione dei personaggi, nessuno dei quali sembra in grado di stimolare un minimo di empatia, a cominciare dal protagonista: al di là delle ovvie questioni morali, i personaggi sono infatti troppo chiusi nelle loro ossessioni per suscitare la nostra solidarietà, perseguitati da nevrosi e idiosincrasie con cui faticano a convivere (esemplari, in tal senso, le fantasie erotiche o autoaccusatorie di Marty, intelligentemente mostrate senza soluzione di continuità rispetto al tessuto “reale”, da cui traspaiono tutte le sue frustrazioni). È quindi molto difficile lasciarsi coinvolgere dal racconto, ma probabilmente si tratta di una scelta volontaria, finalizzata ad agevolare uno sguardo analitico sull’intera vicenda e sui personaggi che la animano.
In effetti, la serie non risparmia nessuno: se i segreti dei Byrde smascherano l’ipocrisia della classe media, l’ottusità della famiglia di Ruth chiama in causa il lato peggiore del white trash, con ambientazioni e contesti sociali che rievocano Un gelido inverno, Mud, Joe e altre disamine del ventre americano, dove un’umanità allo sbando vive ai margini del progresso. Bateman, regista dei primi due episodi, se la cava bene con la tensione, e allestisce un clima opprimente giocato sul grigio e sull’azzurro, tra i grattacieli di Chicago e i suggestivi laghi di Ozark, coerente con lo stile algido dello show. Molta attenzione è dedicata ai risvolti tecnici del riciclaggio, con abbondanza di dettagli su ogni singolo passo: è chiaro che gli autori mirano a denudare i meccanismi di questo processo, senza dimenticare tutte le sfumature di carattere economico e finanziario che ne conseguono. Marty, non a caso, è un pianificatore scrupoloso e razionale, un colletto bianco che trabocca di istinti repressi e responsabilità incombenti, abile a esaminare rischi e benefici di ogni situazione; come molti suoi simili, risolve i momenti di crisi attraverso le sue capacità oratorie, soprattutto di fronte a interlocutori palesemente impreparati come i redneck di Ozark.
I personaggi tendono spesso a replicare alcuni vecchi tópoi cine-televisivi (in particolare Charlotte, adolescente malmostosa e contestataria), mentre l’introduzione di Roy – che acquisisce maggiore importanza nel corso degli episodi – risulta un po’ lacunosa. In un panorama televisivo come quello attuale, Ozark non offre nulla di fresco o incisivo se paragonato ad altri prodotti coevi, ma indubbiamente ha il merito di riproporre certe contraddizioni nazionali su scala familiare, evidenziando la banalità del male attraverso i paradossi del middle man: pur di garantirsi una vita tranquilla, egli è disposto ad alimentare proprio quell’orrore che ne minaccia l’incolumità. In tal modo, la serie targata Netflix ritrae con disinvoltura quello spostamento dei limiti morali che suona come una resa incondizionata di fronte alle violenze della quotidianità.
Voto: ★★★
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