Eliminare la barriera tra uomini e mostri: in ricordo di George A. Romero

Eliminare la barriera tra uomini e mostri: in ricordo di George A. Romero

Di Lorenzo Pedrazzi

Chissà se era proprio George A. Romero quel fattorino diciannovenne che si aggirava nel backstage di Intrigo internazionale, talmente affamato di cinema da riciclarsi come tuttofare sul set del capolavoro hitchcockiano. Dario Buzzolan cita questa “leggenda” nella sua monografia su La notte dei morti viventi (Lindau, Torino, 1998, p. 21), ma non c’è dubbio che – come afferma lui stesso – sia una storia “verosimile”, soprattutto se consideriamo la passione e le ambizioni del giovane Romero, nato a New York il 4 febbraio 1940. In quel periodo, l’aspirante cineasta studia arte, teatro e design al Carnegie-Mellon Institute of Art di Pittsburgh, città in cui successivamente decide di ambientare il suo primo film: sono passati nove anni da Intrigo internazionale, e Romero, dopo il diploma e un paio di cortometraggi, fonda una casa di produzione specializzata in film industriali e spot pubblicitari, la Latent Image, e continua ad accarezzare l’idea di dirigere un lungometraggio. L’opportunità si presenta quando un altro pubblicitario, Karl Hardman, accetta di produrre il film che Romero sta scrivendo con John Russo, Night of the Flesh Eaters, poi cambiato in Night of the Living Dead. I mezzi a disposizione sono esigui (il budget ammonta a 114 mila dollari), le stroncature fioccano, ma il film incassa più di tre milioni, e nel 1969 riesce persino a farsi strada tra le sale del prestigioso Museum of Modern Art di New York: è l’inizio di una straordinaria carriera, la cui influenza sull’immaginario collettivo permane tuttora.

La rivoluzione operata da George A. Romero sul cinema horror riecheggia quella di Richard Matheson in ambito letterario, e non è certo un caso che La notte dei morti viventi – per stessa ammissione del regista – tragga ispirazione dal romanzo Io sono leggenda. Entrambi sradicano l’orrore dalle sue origini gotiche (basti pensare a Lovecraft in letteratura e ai film della Hammer al cinema) per trasporlo in una dimensione quotidiana, familiare, contemporanea, generalmente piccolo-borghese e suburbana: i mostri si nascondono tra le pieghe della quotidianità, tra le mura di un appartamento o dietro la porta (e la maschera) del vicino di casa. Ovviamente, per quanto riguarda Romero, c’è anche un impatto visivo fortissimo: La notte dei morti viventi è in bianco e nero, la fotografia è sgranata, le inquadrature della camera a spalla sono mosse e concitate; insomma, sembra di guardare un documentario, un frammento di vita reale che parla proprio di noi. Buzzolan non potrebbe dirlo meglio di così:

Al suo esordio, Romero parla chiaro: e fa capire che lo schermo non è una finestra su un altro ma su questo mondo; perciò terrorizza. (ibidem, p. 23)

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In altre parole, La notte dei morti viventi fa paura perché i morti viventi siamo noi. I living dead di Romero non sono affatto i primi non-morti del cinema, questo è ovvio: basti pensare ai vampiri di Murnau, Browning e Dryer, alla Mummia di Freund e alle varie incarnazioni degli zombie, tra cui la più celebre è probabilmente quella di Tourneur (Ho camminato con uno zombie, 1943). Ma i morti viventi romeriani si differenziano per un dettaglio fondamentale: la loro esistenza è completamente priva di senso. Non sono governati da un padrone umano o alieno, non perseguono uno scopo; sono soltanto cadaveri innescati dalla “coazione a ripetere”, e l’istinto che li porta a nutrirsi di carne umana non corrisponde a un reale bisogno primario (anche se restassero a digiuno, non “morirebbero” di fame), ma deriva dall’ossessione per il consumo, da una reiterazione compulsiva di ciò che essi facevano in vita. Questo perché il cinema di Romero è sempre stato intensamente, visceralmente “politico”, e l’horror ha sempre rappresentato per lui un’opportunità di critica (o satira) sociale. La barriera che un tempo separava gli uomini dai mostri crolla fragorosamente: il mostro non è più un “altro da sé”, e non può nemmeno rappresentare una minaccia esterna di carattere storico-sociale, come il comunismo o il maccartismo – a seconda delle interpretazioni – negli Ultracorpi di Siegel; no, il morto vivente sfonda questa parete, poiché esso rappresenta una lacerazione interiore del soggetto, i suoi conflitti, la violenza endemica della società che ha contribuito a edificare. Quella dei living dead è una minaccia impossibile da razionalizzare, come si evince anche dall’affrettata spiegazione della loro genesi (le radiazioni da Venere o, in seguito, il virus). Il film – come i suoi sequel – ci spaventa perché riflette la nostra immagine, ed è tanto più terrificante quanto più insensata è la furia degli attacchi, al punto da rendere La notte dei morti viventi più vicino a Gli uccelli che al New Horror dei successivi anni Settanta (senza dimenticare il parallelismo con i capolavori che denudano la violenza del Sogno Americano, come Badlands di Malick).

Di fatto, Romero scardina l’illusoria razionalità che governa le nostre vite, distrugge le nostre sicurezze e ci obbliga ad affrontarne l’artificiosità. In tal senso, non c’è da stupirsi che il cineasta sposti poi la sua attenzione sui temi della famiglia e della superstizione, come accade in La stagione della strega (1972) e Martin (1978). Nel primo, le vuote convenzioni sociali della vita di coppia si tramutano in frustrazione, noia e “fuga” nella stregoneria, mentre il secondo sbeffeggia il mito del vampirismo, ritratto solo come un ridicolo espediente – al pari di altri mostri e superstizioni – per esorcizzare la sopracitata violenza endemica, un modo per oggettivare verso l’esterno quegli orrori che, invece, trovano posto all’interno dell’animo umano. In mezzo c’è La città verrà distrutta all’alba (1973), dove la mutazione degli ignari cittadini è provocata da un’arma batteriologica che li trasforma in pazzi assassini. Stavolta l’origine è chiara: Romero, come farà in Day of the Dead, individua il pericolo nelle istituzioni militari, confermando il suo scetticismo nei confronti di ogni sistema organizzato, pronto a disgregarsi non appena l’irrazionale s’incunea tra i suoi ingranaggi.

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La critica sociale diventa ancora più esplicita quando Romero decide di proseguire la saga dei morti viventi: Dawn of the Dead (1979), ormai leggendario quanto il suo prequel, sposta l’azione in un centro commerciale per mettere in scena un’ulteriore “coazione a ripetere”, quella che spinge i living dead – memori delle proprie abitudini passate – a dirigersi meccanicamente verso la cattedrale del consumo, assediandola come in un qualunque Black Friday. D’altra parte, anche i vivi non possono resistere a questa tentazione: lo sparuto gruppo di protagonisti non esita a saccheggiare i negozi per costruirsi un eremo piccolo-borghese, mentre la gang di motociclisti che invade il centro commerciale si comporta allo stesso modo, con l’aggiunto di un incontrollato, animalesco spirito distruttivo. Se è vero che “i centri commerciali hanno quel carattere di centralità una volta tipico dei centri religiosi” (George Ritzer, La religione dei consumi. Cattedrali, pellegrinaggi riti dell’iperconsumismo, t. it. di N. Rainò, Il Mulino, Bologna, 2000, p.18), l’assiepamento dei non morti attorno allo shopping mall ha tutte le caratteristiche del pellegrinaggio inconscio, al punto che i morti viventi diventano quasi indistinguibili dai “vivi morenti”: entrambe le categorie sono sottoposte alla tirannia delle leggi di mercato, ed entrambe, in un modo o nell’altro, affollano i centri commerciali semplicemente per rispondere agli impulsi di una vecchia abitudine. È solo pura ripetizione, l’unico modello di comportamento noto ai living dead, i quali “da un lato perpetuano artificiosamente vite cui è negato l’accesso all’estinzione, dall’altro tendono a spargere il contagio, non della morte, ma della vita o, più esattamente, di una pseudo-vita semiferina, incapace di porsi se non come [appunto] meccanica coazione a ripetere” (A. Cappabianca, L’immagine estrema. Cinema e pratiche della crudeltà, Costa & Nolan, Milano, 2005, p. 98).

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Più claustrofobico è il terzo capitolo, Day of the Dead (1985), ambientato in un bunker dove una squadra di sopravvissuti studia i morti viventi al fine di arginarne la diffusione. Con un espediente tipico della fantascienza classica, al buonsenso progressista degli scienziati si oppone la violenza conservatrice dei militari: se i primi riconoscono la necessità di risolvere il conflitto con il “diverso” in un mondo ormai cambiato, i secondi vedono nei living dead solo una minaccia da debellare per restaurare il vecchio status quo. Comincia qui un percorso che coinvolge anche Land of the Dead (2005) e in parte Survival of the Dead (2009), ultimo film del regista americano, che riflette sulla possibile evoluzione delle sue creature e sul parziale recupero della loro umanità. Land of the Dead assume i toni della lotta di classe, con i morti viventi nel ruolo di Untermenschen e l’elite della nuova Pittsburg come simbolo dell’oppressione capitalista: i non-morti invadono la città e distruggono questo patetico tentativo di ristabilire l’ordine sociale, rivendicando il diritto a ereditare la Terra da un’umanità ormai allo sbando. Complice l’evoluzione degli effetti visivi, questi film approfondiscono le sfumature splatter della saga, mettendo in scena uno spettacolo ributtante di viscere e umori corporali che richiama l’idea del contagio, ma anche della vulnerabilità del nostro corpo ai processi di decadimento. Questa concezione del disgusto ritorna anche nella curiosa parentesi di Diary of the Dead (2007), ma in senso più ludico e ironico: Romero impiega la tecnica del found footage e confeziona uno dei migliori esempi di mockumentary horror, azzerando la saga dei living dead per rileggerla da un punto di vista alternativo. La contrapposizione tra due scelte morali (riprendere la morte oppure no, documentare il massacro per i posteri o rispettare la sofferenza delle vittime) alimenta il film e giustifica la scelta di questa tecnica rappresentativa, giocando con arguzia sul metacinema, come dimostrano le frecciatine agli epigoni del filone “zombie”.

Al centro, comunque, c’è sempre quella lotta tra uomini che caratterizza tutta la sua carriera: persino ne La metà oscura (1993), adattamento del romanzo di Stephen King, Romero narra una battaglia che non è affatto esteriore, bensì completamente interiore, nella personalità bipartita di uno scrittore che vuole “uccidere” il suo alter ego letterario (quindi il suo doppio) e ne subisce la furia. Non c’è spazio per “qualunque idea di soggettività forte e coerente” (D. Buzzolan, George A. Romero. La notte dei morti viventi, cit. p. 21), poiché nemmeno la creazione artistica permette di affermare la propria identità, e l’irrazionale prende il sopravvento attraverso l’eponima “metà oscura”, proverbiale granello di sabbia in un meccanismo (im)perfetto. Anche di fronte a un testo preesistente, Romero non soffoca la sua voce critica, ma continua a rileggere l’orrore in rapporto a una quotidianità che nasconde il male proprio nelle sue pieghe più banali, esplorando gli interstizi fra modernità e superstizione, individualità e istituzioni. Il cinema americano non perde solo un grande regista, ma anche e soprattutto una delle sue voci più rivoluzionarie.

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