Di Maria Laura Ramello
Attenzione: quello che leggerete da qui in avanti prende vita da un’esperienza squisitamente personale. Qualcosa che è successo a me che scrivo, nella realtà.
Torniamo indietro.
Quasi una settimana fa sono uscite le prime recensioni americane di Valerian e la Città dei Mille Pianeti.
Come (forse) già saprete, si tratta dell’ultimo film diretto da Luc Besson ispirato alla serie di fumetti francesi ideata da Pierre Christin e disegnata da Jean-Claude Mézières – in Italia edita da 001 edizioni – e che vedrà nei panni degli agenti spazio-temporali Valerian e Laureline, i protagonisti, rispettivamente Dane DeHaan e Cara Delevingne.
Non ho visto il film ma nutro grandi speranze da quando ce ne fecero vedere qualche estratto ormai un anno fa in una gremita Hall H al Comic-Con di San Diego. Fu anche la volta in cui incontrai Cara Delevingne. Ma andiamo con ordine.
Come ho detto ero impaziente di leggere le impressioni dei primi giornalisti che avevano visto il film e mi sono imbattuta nella recensione del The Hollywood Reporter. Ammetto che incuriosirmi di più era (è) il personaggio di Laureline. Perché? Per due motivi.
Uno. Da un regista che nel corso della carriera ci ha regalato personaggi come Nikita, Mathilda, Leeloo (ancora mi commuovo se ripenso alla scena in cui Korben cerca di baciarla e lei gli punta la pistola alla tempia dichiarando: Mai senza il mio permesso!), ma anche la più recente Lucy (per quanto le critiche sul film in sé si siano sprecate) mi aspetto protagoniste femminili vere, tridimensionali, potenti, capaci di lasciare il segno, creare un immaginario e, perché no, di diventare in qualche modo un role model.
Due. Sono convinta che di Cara Delevingne ne nasca, in tutto il mondo, una ogni settant’anni.
Immaginate quindi il doppio shock nel leggere:
– The Razzies don’t need to wait until the end of the year to anoint a winner for 2017. (I razzie – i premi ai film peggiori – non devono aspettare la fine dell’anno per scoprire il vincitore del 2017) – Cara Delevingne needs to learn there is more to acting than smirking and eye-rolling (Cara Delevigne dove imparare che recitare è qualcosa di più che fare risatine e roteare gli occhi).
È ovvio che l’intento della recensione è quello di demolire il film – e mi può anche andare bene – ma che mi si tocchi Cara Delevingne no, non va bene.
Così ho scritto un post su Facebook in cui avvisavo i miei contatti che avrei graffiato (con tanto di Gif in cui Cara fa la gattina) chiunque avrebbe avuto qualcosa da ridire sulla mia protetta.
E qui è iniziato il finimondo.
Il guaio – a quanto ho capito a posteriori – è che una che scrive di cinema per professione non può permettersi di difendere le doti recitative di Cara Delevingne. Peccato che io difendessi lei in assoluto in un primo momento, e poi il divismo (ormai quasi estinto, certo) che rappresenta. Per essere chiari, Cara Delevingne per me riesce sempre nei suoi ruoli d’attrice (il che, se proprio vogliamo azzardare un sillogismo, potrebbe leggersi come: è una brava attrice), ma non ha e non avrà bisogno di essere un’ottima attrice. Non ha bisogno di essere o diventare Meryl Streep.
Perché? Per tutto quello che è e che rappresenta.
Facciamo un piccolo excursus biografico.
Cara nasce nell’agosto del 1992 in una famiglia dell’alta società inglese. Figlia di Pandora e Charles Delevingne – gente che può vantare parenti che hanno banchettato con William Churchill e la Principessa Margaret – è cresciuta in tenute da milioni di dollari insieme alle sorelle Poppy e Chloe, accudita da una madre dipendente dall’eroina e da un papà imprenditore da cui ha preso tutto il fascino.
Almeno all’inizio, le conoscenze giuste hanno aiutato la sorella prima e lei poi a entrare nel giro delle persone che contano, e da lì al mondo della moda il passo è stato breve. Un capriccio da ragazzina ricca? Almeno in un primo momento, ma poi per Cara la bolla – come lei stessa ama definire la vita d’un tempo fatta di sfilate, party, cene, stilisti, servizi fotografici e viaggi – l’ha portata a guadagnare 13mila dollari al giorno e a vincere nel 2012 il titolo di modella dell’anno.
A renderla la migliore c’ha pensato non solo l’evidente bellezza (esistono top model più belle di lei, che rispondo meglio agli standard da modella, hanno gambe lunghissime, e sono senza naso a patata) ma soprattutto la personalità, dote rara in un mondo che ti paga per nasconderla. Cara Delevingne ha costruito una carriera al grido: questa sono io. E non l’ha fatto solo sui servizi da copertina (Karl Lagerfeld, lo stilista che l’ha lanciata, l’ha definita il Charlie Chaplin della moda) ma anche sul suo profilo Instagram dove è seguita da più di 40milioni di persone. Ribadiamo. Ci sono più di 40 milioni di persone che quotidianamente vedono, commentano, condividono le sue foto e i suoi video. È per loro, per i tanti giovani che l’hanno eretta a modello (e il passaggio da modella a modello non è per niente scontato) che Cara ha deciso di essere sfacciatamente sincera. Per questo ha raccontato delle sue debolezze, delle sue dipendenze e del tentato suicidio quando era solo un’adolescente. In un’intervista a Elle ha detto: “Non potevo starmene ad ascoltare le confessioni di questi ragazzi che parlavano di bullismo, depressione, dei loro sensi di colpa e della loro sensualità senza fare nulla. Allora ho voluto dirgli che c’ero passata anche io, e che tutto si sarebbe sistemato”. Il suo essere sempre diretta e sincera – memorabile il suo “la mia bisessualità non è una fase ma quello che sono” pronunciato in risposta ai centinaia di magazine che l’avevano sbattuta in prima pagina mentre baciava la cantante St. Vincet – l’ha resa reale. È l’amica pazza che tutti vorrebbero, una che passa le serate con gente del calibro di Taylor Swift, Rihanna, Amber Heard e Kate Moss, che più volte hanno dichiarato quanto Cara sia fantastica, una vera fonte di ispirazione per loro. Ha permesso anche uno sguardo inedito sul mondo della moda, la “bolla” che può risucchiarti l’anima e renderti una bambola, e motivo per cui, lasciate le passerelle, ha deciso di tatuarsi sulla pianta del piede Made in England, a ricordo di quando era solo un oggetto di cui i grandi stilisti disponevano a piacimento.
Insomma, è innegabile che oggi Cara Delevigne sia un’icona. È una personalità dalla quale non si può prescindere se ci si azzarda ad analizzare la nostra bizzarra società.
E quindi, siccome ho letto parecchie cose su di lei, siccome l’ho apprezzata nei suoi film precedenti, siccome so che molti registi l’hanno scelta per progetti in fase di sviluppo, siccome l’ho vista dal vivo e mi ha dato l’impressione di essere una delle poche dive (se diva si può chiamare) mondane della sua generazione, ho scritto quello che già vi ho detto sulla mia pagina Facebook. Tra un #CagnaDelevigne (così scontato da non essere nemmeno divertente) e un per me basta che faccia le foto nuda senza recitare, i commenti al post sono stati l’occasione per far venire a galla i detrattori ma anche per dare il via a un discorso più serio. E così è iniziata la mia non necessaria apologia di Cara Delevingne. Riassumo ed esplicito. Dubitiamo tutti che Cara Delevingne possa vincere il prossimo premio Oscar come migliore attrice. E non è questo il punto. Il punto è avere la capacità di riconoscerne la rilevanza. Capire che una ragazza di venticinque anni con alle spalle un decennio di carriera, un seguito di fan che la idolatrano, la capacità di influenzare le mode, gli stili e le sopracciglia di un’intera generazione non ha molto ancora da dimostrare. Certo, non avrà le doti recitative di Jessica Chastain ma ha un talento senza nome che la rende inclassificabile. E che registi lungimiranti si servano della sua personalità per aggiungere scintillio e chiacchiere ai propri film mi sembra sensato, forse addirittura sacrosanto. Snobbare l’importanza di Cara Delevingne nel mondo d’oggi significa non voler cogliere la realtà, infilare la testa nella sabbia bollente, girare la faccia ai tempi che corrono. Saranno poi i posteri a decretare se l’icona diventerà leggenda. Di certo è già storia.
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