Twin Peaks – Parte 6: «Don’t Die»

Twin Peaks – Parte 6: «Don’t Die»

Di Lorenzo Pedrazzi

C’è una scena, in questa sesta parte di Twin Peaks, dove MIKE compare davanti a Cooper (Kyle MacLachlan) e lo esorta a “non morire”. «Don’t die!» gli dice, chiaramente preoccupato per la sua sorte e per la sua momentanea incapacità a svegliarsi. Paradossalmente, l’episodio in questione è disseminato di cadaveri: la morte è una presenza greve, cruenta, che colpisce un bambino e due donne con una follia improvvisa di cui David Lynch costruisce sottilmente le premesse, e che stride con la persistente catatonia di Cooper.

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Quest’ultimo è ancora lontano dal ritrovare la strada, e tenui barlumi del suo vero “io” si manifestano solo di fronte agli oggetti della sua vita passata, come i fascicoli (case files) della compagnia assicurativa e il distintivo di un poliziotto. Riportato a casa da due agenti, Cooper / Dougie approfondisce il rapporto con suo figlio nella deliziosa sequenza dell’abat-jour, quando lui e il bambino si divertono ad accendere e spegnere la luce battendo le mani: il piccolo Sonny Jim sembra essere l’unico ad accettare suo padre così com’è, giovandosi della sua semplice presenza fisica e del suo atteggiamento infantile. Janey-E (Naomi Watts) riceve però una foto in cui Dougie tiene per mano Jade (Nafessa Williams), e ovviamente s’infuria con lui. La foto proviene dalle persone cui Dougie deve dei soldi per una storia di prestiti e gioco d’azzardo, ma Janey non ha intenzione di farsi intimorire: prende un appuntamento con i creditori e consegna loro 25 mila dollari, metà della cifra che chiedevano, poiché in realtà il prestito ammontava a 20 mila. La scena in cui Janey si fa emblema della classe media per redarguire i due strozzini desta qualche deja-vu, ma nasconde una tensione profonda che la donna maschera dietro un’apparente spavalderia, figlia di un attaccamento ossessivo al buon senso. Dal canto suo, Cooper compila le richieste di risarcimento con disegni di scale a pioli, scalini, linee e strani scarabocchi, dai quali il suo capo riesce misteriosamente a trarre uno schema: dopo averli esaminati, ringrazia Cooper per avergli permesso di scoprire un fatto così disturbante, e gli porge la mano per stringergliela; Cooper, come al solito, scardina la convenzione sociale e si mette in una posa simile a quella del suo capo, volgendogli le spalle. «Sei proprio un tipo strano» gli dice il principale, ora più benevolo nei confronti delle sue bizzarrie. Per quanto enigmatica, la storia degli scarabocchi dimostra che questa versione di Cooper non è affatto inutile, ma agisce sotto l’influsso della Loggia Nera per ottenere uno scopo imprecisato. D’altra parte, Lynch ha già dimostrato di non voler gratificare i nostalgici, tutt’altro, quindi il ritorno del “vero” Cooper potrebbe essere ancora distante.

Don Murray in a still from Twin Peaks. Photo: Suzanne Tenner/SHOWTIME

I suddetti nostalgici, in compenso, possono gioire per l’introduzione di Diane, l’interlocutrice di Cooper nei suoi numerosi messaggi vocali. L’espansione della mitologia di Twin Peaks passa anche da qui: sarebbe stato fin troppo semplice immaginare Diane come una proiezione mentale dell’agente, e invece non è così, poiché ella esiste in carne e ossa, con il volto di una storica attrice lynchiana come Laura Dern (Velluto blu, Cuore selvaggio, Inland Empire). È Albert (Miguel Ferrer) a guidarci verso questo incontro, prima con una memorabile imprecazione sotto la pioggia – «Fuck Gene Kelly, you motherfucker!» esclama Albert mentre cerca di ripararsi dal diluvio – e poi con l’inquadratura dell’attrice che si gira e ci mostra il suo volto, chiamata dall’uomo in un locale affollato. David Lynch ha bisogno di pochi elementi essenziali per costruire una scena iconica, soprattutto quando gioca consapevolmente con le aspettative del suo pubblico: bastano due attori feticcio, un clima gravido di attese e un semplice mezzobusto, poi l’immaginario collettivo fa il resto.

Eamon Farren in a still from Twin Peaks. Photo: Suzanne Tenner/SHOWTIME

Ma Lynch è anche un regista che sa dosare i toni, diversificando ritmi e registri narrativi a seconda delle circostanze (non dimentichiamo che fra Strade perdute e Mulholland Drive c’è stato Una storia vera). Per questa ragione, lo sguardo sui tre omicidi è molto differente. Il primo è causato da Richard Horne (Eamon Farren), che scopriamo essere uno spacciatore al servizio di un giro più ampio: Richard incontra il suo fornitore, Red (Balthazar Getty), curioso individuo che si esibisce in pose plastiche tra Elvis e il kung-fu, chiedendo al ragazzo se “ha mai studiato la sua mano”, e provocandolo in vari modi. A un certo punto, Red lancia in aria una moneta, e quella resta sospesa sulle loro teste per un tempo insolitamente lungo, salvo poi comparire nella bocca di Richard e poi di nuovo nella mano di Red. L’atmosfera criminosa e la caratterizzazione surreale rievocano alcuni classici lynchiani come Velluto blu, mentre la dilatazione temporale favorisce lo straniamento: non è ben chiaro cosa sia succedendo, ma un senso di pericolo aleggia sull’intera sequenza. Purtroppo, per sfogare la sua frustrazione, Richard decide di sfrecciare con il camion senza curarsi di nessun altro, e travolge un povero bambino che stava giocando a rincorrersi con la sua mamma. La scena è straziante, e Lynch indugia per un tempo “scandalosamente” lungo sull’immagine pietosa della madre che abbraccia il corpicino del figlio, o sugli sguardi affranti dei pedoni: non c’è un impiego del disgusto per imporre una distanza fra il dramma e il pubblico, non c’è una stilizzazione grottesca o paradossale; c’è soltanto il dolore, puro e terribile, privo di senso e di soluzione. Carl Rodd (Harry Dean Stanton) è il proprietario del parcheggio per roulotte, già visto in Fuoco cammina con me, e assiste all’intera scena: nota un alone dorato librarsi nell’aria dal cadavere del bambino, e corre dalla madre per confortarla. La scena più toccante della nuova serie, almeno finora.

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Molto diverso è invece l’approccio di David Lynch davanti all’assassinio di Lorraine (Tammie Baird), commissionato da Duncan Todd (Patrick Fischler) a Ike “The Spike” Stadtler (Christophe Zajac-Denek), insieme a quello di Dougie. Il killer, uomo calvo, molto piccolo e muscoloso, si reca da Lorraine in ufficio e la pugnala con un rompighiaccio, poi uccide anche una sua collega che aveva visto tutto, e infine si rammarica perché la lama della sua arma si è deformata. Eccola, quell’ironia del banale di cui parlava David Foster Wallace: la scena è sanguinosa e cruenta, eppure c’è spazio per un alleggerimento grottesco, teoricamente fuori luogo rispetto al dramma in corso. La combinazione tra “il molto macabro e il molto banale” è palese fin dalla corporatura dell’assassino, e poi si rivela definitivamente nella sua afflizione per il rompighiaccio danneggiato. Questo, insomma, è pienamente lynchiano, nel senso più comune del termine.

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C’è spazio anche per le indagini di Hawk (Michael Horse), che segue il percorso di una monetina nel bagno della centrale di polizia e scopre la targhetta “Nez Perce Manifacturing” sulla porta del gabinetto, un indizio relativo alle sue origini – i Nasi Forati sono una tribù di nativi americani – e quindi legato alla profezia della Signora Ceppo. All’interno del rivestimento della porta ci sono alcuni fogli strappati, ed è inevitabile pensare alle celebri pagine perdute del diario di Laura Palmer, mai ritrovate. Intanto, Chad si conferma un idiota, mentre scopriamo che il figlio di Frank Truman (Robert Forster) si è suicidato per i traumi della vita da soldato, e la moglie dello sceriffo non si è mai ripresa da quella tragedia. Restando a Twin Peaks, Shelley Johnson (Mädchen Amick) e Heidi promettono di offrire una torta all’affezionata cliente che lascia loro una generosa mancia, e che in seguito vede Richard mentre si allontana dall’incrocio dove ha travolto il bambino.

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Chi lamenta l’assenza di una struttura narrativa in questo revival di Twin Peaks – come hanno fatto alcuni recensori americani – non ne coglie la natura di fondo: non stiamo parlando di un qualunque drama del piccolo schermo, ma di un universo magmatico e capillare, impossibile da “giudicare” con i parametri dell’odierna serialità televisiva. Lynch pretende che sia il fruitore a individuare le connessioni, scovando i legami interni all’intreccio, i suoi rimandi cross-mediali e gli elementi ricorrenti: un labirinto dove l’attenzione per il dettaglio è l’unico mezzo per orientarsi, o un flusso visivo dove abbandonarsi alla corrente. Se uno schema esiste, avremo bisogno di maggiori indizi per ricostruirlo, ma quello di David Lynch è un cosmo dove le domande contano più delle risposte, e la visione attiva (ragionata, stimolata) è indispensabile per godere appieno delle sue qualità.

Voto: ★★★★★

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